Ripartiamo da Craxi Era lui il migliore Domani (oggi, 19 gennaio) ricorre il sesto anniversario della morte di Bettino Craxi. È una ricorrenza che, ovviamente, parla al cuore ed alle menti di tutti quegli italiani che sono stati e si sentono tuttora socialisti, di quella particolare parte di socialismo che nessuno meglio di Bettino ha rappresentato nel corso degli ultimi trent'anni. Un socialismo che era assieme intriso di valori ma al tempo stesso di pragmatismo e di realismo, un impasto di razionalità e di utopia, un socialismo che per essere correttamente identificato abbisogna di essere qualificato con una serie di aggettivi quali democratico, riformista, autonomista, liberale. Questa volta, però alla luce delle vicende che punteggiano la cronaca di questi giorni, pensiamo che tale ricorrenza attirerà l'attenzione anche di moltissimi italiani che socialisti non sono stati e che probabilmente anche oggi si sentono lontani da tale identità politica ma che, alla luce delle vicende di cronaca ma soprattutto delle attuali condizioni effettive del Paese, sono stati indotti a ripensare in maniera più oggettiva al significato delle vicende di oltre dieci anni fa che hanno portato alla fine politica di Bettino Craxi, al suo esilio ad Hammamet e, infine, all'amarissima conclusione della sua esistenza. Il confronto tra oggi e allora ormai non consente né perplessità né dubbi: la prima Repubblica, con tutti i suoi difetti, limiti, errori, si è rivelata molto migliore della seconda, soprattutto con riferimento ai concreti interessi della maggioranza degli italiani e Craxi, sicuramente corresponsabile dei limiti e degli errori di quegli anni, rimane ancora oggi come l'unico grande uomo politico italiano che ha avuto il coraggio di riconoscere tali errori, di rompere la congiura dell'ipocrisia e di fare, proprio nel momento in cui il peso di tali limiti ed errori appariva in tutta la sua evidenza agli occhi dell'opinione pubblica di allora, un forte appello all'intera classe politica italiana ad ammettere la realtà e ad affrontare con coraggio le difficili scelte che avrebbero potuto consentire di porre rimedio a tale situazione.
E lo fece in modo chiaro ed alto, nella sede più propria e cioè nell'aula del Parlamento, in quel famoso 3 luglio del 1992. Oggi possiamo ben dire che il colpevole silenzio che seguì a tali parole è all'origine del fallimento degli anni successivi e all'aggravarsi di una crisi che oggi sta giungendo alla sua fase terminale. Sono stati quasi quindici anni sprecati, dedicati ad una competizione politica che ha sempre più perso le sue ragioni di fondo e sempre più assunto i connotati di una pura lotta di potere, di uno scontro tra lobby in competizione per la conquista di quote sempre maggiori di quel potere, soprattutto in campo economico e finanziario. Il prezzo lo hanno pagato soprattutto gli italiani, con il deterioramento dei loro standard di vita e con la ridotta competitività delle nostre aziende, con la progressiva perdita di prestigio e di autorevolezza nell'arena europea e in quella globale. Su tutto ciò dovrebbe meditare il gruppo dirigente post comunista, quando si lamenta giustamente dell'imbarbarimento di certe forme di lotta politica che sembrano travolgere le regole basiche di ogni corretto confronto democratico; forse la coincidenza della ricorrenza della morte di Bettino potrebbe aiutarci a capire l'importanza di mettere un punto all'andazzo sciagurato di questi anni e a prendere il coraggio di voltare pagina.
Naturalmente, non si tratta di tornare indietro nel tempo ma semplicemente di riflettere su dove eravamo rimasti e di riprendere la strada in avanti, facendo tesoro anche di quelle esortazioni rimaste allora inascoltate. Qualche puntino sulle "i", anche proprio alla luce delle vicende di questi giorni, non dovrebbe essere difficile metterlo; l'importante mettere da parte ipocrisie, doppi standard e inutili richiami all'etica, solo al fine di nascondere la realtà. Il problema non è nella relazione e nella contiguità, tra politica ed affari, tra potere politico e potere economico: tale contiguità appartiene all'ordine naturale delle cose, in sistemi basati sulle regole della democrazia e su un sistema economico di regole di mercato: la questione è come regolare tale rapporto e ciò dipende solo da due cose; da un lato da un sistema preciso di regole e dell'obbligo per ciascuno di rispettarle (secondo la logica dello stato di diritto e del rifiuto di quella perversa dello stato etico), dall'altro nell'assoluto obbligo di rispettare la trasparenza massima in tali materie.
Quello che stupisce nelle vicende di questi giorni non è tanto l'attenzione che viene dedicata agli episodi di evidenti trasgressioni che sono venuti alla luce, quanto il fatto che nessuno si sia interrogato sul perché, nei mesi e negli anni scorsi, nessuno abbia preteso spiegazioni su intrecci e commistioni che sono stati in tutto questo tempo ben noti e ben evidenti e su cui la riflessione avrebbe dovuto essere indotta non tanto dal loro degenerare al di là delle regole quanto proprio di per sè stessa. L'errore del gruppo dirigente post comunista non è stato quello di aver capito in ritardo o di non essersi accorti delle pratiche spregevoli dei vari Consorte o Sacchetti, quanto quello di avere considerato normali o, addirittura, positivi, intrecci ed alleanze che avrebbero dovuto fin dall'inizio suscitare perplessità o che altrimenti avrebbero dovuto essere esplicitamente accettate e difese, traendone tutte le necessarie conseguenze, anche sotto il profilo delle modificazioni di identità politiche che essi, inevitabilmente, comportavano. Non basta prendere le distanze da un'Unipol il cui gruppo dirigente ha chiaramente violato alcuni standard ed infranto alcune regole ma si deve affrontare il caso dell'anomala situazione del Monte dei Paschi di Siena, riflettendo sui comportamenti di tale istituto bancario in molti altri episodi nei quali possono essere riscontrati alcuni dei connotati caratterizzanti la vicenda Unipol - Bnl. Naturalmente tutto questo inevitabilmente porta al definitivo superamento di uno schema descrittivo della situazione politica italiana che è stato quello che ha caratterizzato gli anni di Mani Pulite e poi le vicende della seconda Repubblica: quello secondo cui la vera divisione che distingue i campi che si contrappongono nella lotta democratica è quella fra gli onesti e i disonesti, tra i "diversi" alla Berlinguer e gli "uguali" associati inevitabilmente a collusioni e collateralismi inaccettabili, da coloro che perseguono l'interesse pubblico e da quelli che, nei loro comportamenti, sono guidati da più o meno espliciti conflitti di interesse. Il corretto funzionamento di un sistema politico basato sulla liberaldemocrazia non esclude il diritto alla rappresentanza degli interessi del gioco politico ma presuppone che essi debbano esprimersi nell'assoluto e rigoroso rispetto di regole chiare e definite e devono consegnare a ruoli marginali quelle forze che cedano alla tentazione di voler rappresentare in modo assolutistico ed estremizzato valori e beni che invece devono sempre essere considerati in modo relativo e, di nuovo lo ripetiamo, sulla base di un preciso sistema di regole.
Ricordando Craxi cercheremo di applicare l'attualità della sua lezione politica alle vicende di oggi, nella prospettiva di un domani migliore. Se altri con noi vorranno muoversi nella medesima direzione, saranno utili a contribuire a chiudere una parentesi che ha fatto perdere fin troppo tempo al nostro Paese e a consentire alla comunità nazionale di individuare un modo corretto per uscire da questa situazione, sfuggendo alla tentazione di voler ripetere l'errore del 1992-93: quello di usare la situazione per individuare dei responsabili da trasformare in capri espiatori a senso unico, a vantaggio non del Paese ma di specifici interessi parziali.