Si avvicina la data delle elezioni regionali e si intensifica il clima polemico tra gli schieramenti: peccato che le questioni che sembrano eccitare maggiormente abbiano ben poco a che fare coi problemi del Paese, nonché con la reale agenda delle questioni principali che si impongono all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.
Basti pensare allo stanco dibattito che si trascina attorno al cruciale problema della competitività del sistema Italia e alle delicate scelte di contenuti e di priorità su cui dovrebbe pronunciarsi prima il Governo e poi il Parlamento già nei prossimi giorni.
Ma ancor di più stupisce la scarsa attenzione che la società politica italiana presta alle vicende che stanno sconvolgendo il Medio Oriente, nonché alla nuova piega che ha preso il confronto tra gli Stati Uniti e l’Europa.
In questi giorni a Beirut sembra delinearsi uno scenario dal sapore ucraino e al tempo stesso l’ attentato di Tel Aviv si aggiunge all’omicidio di Hariri, configurando una sorta di neppure tanto occulta trama che sembra rispondere ad un ben preciso, anche se disperato, tentativo da parte delle forze del fondamentalismo e dell’estremismo islamico, di riuscire a ribaltare una partita segnata nelle ultime settimane da una serie di successi della lotta per la democrazia nel mondo arabo islamico, dalle elezioni in Iraq, all’intesa tra Sharon e Abu Mazen, all’annuncio di riforme elettorali di Mubarak, allo scatto di orgoglio nazionale del popolo libanese.
Contestualmente non può sfuggire il senso politico profondo della cautela delle reazioni siriane, nonché della positiva convergenza attorno alla vicenda nucleare iraniana tra Stati Uniti ed Europa.
Come alcuni di noi avevano previsto, è l’intero quadro del Medio Oriente a entrare in movimento in una direzione positiva, dimostrando che la scommessa di sfidare il rischio del cambiamento dello status quo compiuto da Bush e dai suoi alleati europei con l’intervento militare in Iraq comincia a pagare.
Peccato che in Italia non si voglia e non si sappia sviluppare una riflessione adeguata rispetto alla lezione da trarre da tali vicende: l’opposizione si limita a timidi ripensamenti chiaramente dettati prevalentemente da ragioni di politica interna e la maggioranza non pare interessata a sfruttare, nemmeno a fini di parte, il vantaggio che la nuova situazione sembra offrirle.
Eppure non dovrebbe sfuggirci il rischio intrinseco, in questa situazione, non solo di non riuscire ad utilizzarla pienamente ai fini del nostro legittimo interesse nazionale, ma addirittura di doverci trovare a pagare un prezzo come conseguenza della “sindrome da figliol prodigo”, che potrebbe caratterizzare l’atteggiamento americano rispetto ai nuovi potenziali alleati europei.
Nelle situazioni di grandi movimenti non ci sono rendite di posizione garantite per sempre e proprio il fatto di aver saputo fare le scelte giuste nel passato dovrebbe oggi indurci a guadagnare nuovo vantaggio con adeguate iniziative corrispondenti all’evolvere delle situazioni sul terreno.
Ma ciò presupporrebbe, appunto, smettere di guardarsi l’ombelico, che è stato l’atteggiamento prevalente del nostro Paese in questo decennio. Le campagne elettorali dovrebbero rappresentare una buona occasione per discutere seriamente, anche se animatamente, delle scelte da compiere per non perdere il vantaggio acquisito.
Vista l’importanza che ciascun schieramento sembra attribuire al risultato del 3 e 4 aprile, non sarebbe poi così male che ciascuno dei due contendenti tentasse di prendere il sopravvento guadagnandosi il favore dell’opinione pubblica con indicazioni coraggiose ed adeguate su quelli che sono i reali problemi da cui dipende anche il futuro della nostra comunità nazionale.