Dopo quattro generazioni, due guerre mondiali, due dopoguerra mondiali, una dittatura fascista ventennale, un regime consociativo durato cinquant’anni, una resistenza con forte sospetto di guerra civile, un decennio di terrorismo con sospetto di guerra civile, e dopo duemila anni di storia, l’Italia ha ancora seri problemi a capire che lo spartiacque non è tra destra e sinistra, tra fascisti e comunisti, tra guelfi e ghibellini, tra papisti e imperiali, ma, molto più semplicemente, tra violenza e non violenza.
Chi uccide per imporre le sue idee, la sua religione, la sua fede, o per vietare quelle altrui è uno che uccide, chi massacra suoi simili per promuovere la sua “rivoluzione”, imporre la sua “democrazia”, la sua “libertà” o il suo “dio”, è uno che massacra. La filosofia, l’ideologia, la religione non c’entrano per nulla. L’idea che ammazzare gente di diversa opinione, religione o fede, avversari politici o di parte ideologica sia utile per promuovere e far vincere una idea, una ideologia, un sogno o un progetto, è mostruosa. Certo che è molto più appagante, per l’io dei giustizieri della mazza e delle chiavi inglesi, presumersi eroi del pensiero, lucidi rivoluzionari, generosi liberatori, che killers, ma questa loro presunzione non deve essere assunta nel giudizio storico. Chi uccide o picchia passa automaticamente dalla filosofia e dalle idee al ruolo di picchiatore o omicida. Chi ha ucciso, fatto uccidere e massacrare, predicato di uccidere o torturare, cercherà sempre una copertura politica, ideologica o culturale, e si appellerà a una giustificazione “contestuale” per continuare a vivere, per dormire di notte, per sentirsi eroe, vate illuminato, grande condottiero e geniale ideologo e per non affrontare la più modesta realtà della dimensione criminale. L’importante è non concedere questo territorio di apologia e giustificazione, né agli esecutori, né ai mandanti: ognuno si assuma, e ad ognuno sia data, la responsabilità che gli tocca e si eviti di cercare assoluzioni che nessuno può dare. Per queste ragioni i sottili esegeti e commentatori di qualsiasi parte ci risparmino i tentativi per dare dignità ai picchiatori e ai massacratori. Non esistono né l’eroico assassino, né l’illuminato torturatore, né il nobile picchiatore progressista. La violazione fisica dell’altro è l’atto che separa, senza recupero, la più civile delle idee e delle aspirazioni, dall’orrore che la sua imposizione violenta implica. Nessun meraviglioso ideale, nessuna soggettiva valenza storica, può riscattare la violazione fisica. Senza se e senza ma, come è di moda dire oggi. Senza sottili distinzioni, manipolazioni di filosofia minore o esercizio di assemblea liceale. Senza la ragioneria di quanti sono morti ammazzati da chi e quanti da chi altro: sono tutti morti per mano di killers semplici di mente, plagiati e per decisione dei loro mandanti, reazionari manipolatori di filosofie modeste o di contorte manovre di potere. Ci sono responsabilità storiche della cultura, degli intellettuali, della critica sociale che, nei decenni precedenti hanno consentito l’aprirsi del vuoto concettuale e di valori che ha determinato, a destra e a sinistra, il vuoto politico, la disaggregazione sociale e la marginalità che sono poi esplose nella protesta violenta: questo per capirla e non per giustificarla. Questa deve essere la valutazione della storia ed è una valutazione sempre “aperta”. Ogni epoca giudica continuamente ogni altra epoca con i suoi criteri e con la sua cultura: per questo la storia scritta è sempre storia contemporanea come diceva Benedetto Croce. L’Italia soffoca nel mare di parole e di sottili distinzioni finalizzate a nascondere i propri cadaveri nei diversi armadi, o, peggio, a dimostrare un presunto primato etico della violenza della propria parte e l’indegnità della violenza di altre parti, e si perde il senso delle cose tanto da non saper riconoscere nemmeno la semplice, limpida evidenza: chi uccide è un assassino, chi picchia è un picchiatore, indipendentemente dalle etichette ideologiche che gli si vogliono dare e da qualunque contestualizzazione. Le vere rivoluzioni non si fanno con milioni di morti ammazzati, ma con la resistenza e l’opposizione quotidiana e coraggiosa di milioni di vivi. Se questo fosse il costume consolidato non ci sarebbe mai bisogno di rivoluzioni Questa la mia opinione per quanto concerne la violenza commessa per imporre le proprie idee o combattere quelle altrui: molto più semplice del dibattito attuale in Italia sulle memorie divise. Suona qualunquista e semplice rispetto ai sottili sofismi dialettici correnti, a mio avviso questa potrebbe essere una prova della obbiettiva solidità di questa tesi.
Questa analisi e questa condanna possono contribuire alla comprensione di singoli episodi: a capire lo specifico. Ma non ci si può limitare a questo livello. Che individui deboli di mente e facilmente manipolabili da cattivi maestri e da finti filosofi possano esaltarsi al punto di sentirsi “giustizieri” in fondo è una banalità. Una riflessione più interessante potrebbe essere svolta sulla analisi che portò alla conclusione che l’Italia era matura per una “rivoluzione” nel 1970 e in più che questa rivoluzione poteva essere di tipo “leninista”. Molti di quegli analisti sono oggi in cattedra. E’ mancato lo studio di come si forma, in un gruppo sociale, l’ambiente culturale e politico perché queste grossolanità si possano svolgere e possano arrivare alla dimensione che ha connotato l’Italia degli anni ’70, un Paese che per la sua storia si ritiene culla di civiltà. E’ importante sapere dove nascono i cattivi maestri e i filosofi da assemblea liceale, e come mai il contesto più ampio della pubblica opinione della gente normale, prima li ignora, poi tollera, e infine li subisce o addirittura li incoraggia, e, anche dopo molti anni, non ne percepisce e denuncia il vuoto concettuale. Bisogna capire come mai, in qualche punto del percorso dialettico, alcuni di questi vengano addirittura “assunti” dagli ambienti ufficiali della politica e della amministrazione dell’ordine pubblico per essere strumenti di disegni diversi e illeggibili all’analisi “decente” Il processo di avvelenamento è graduale: il veleno nelle fasi iniziali del processo di comunicazione non è percepibile. La conformità e i luoghi comuni possono nascondere il germe che, nella successiva elaborazione collettiva, si trasforma in mostro, per diventare alla fine il coltello, la mazza, la chiave inglese Hazet 36, la P38 o la bomba sul treno. E’ bene essere chiari: quello che sembra venire introdotto da questa posizione non è un altro tentativo di giustificazione “contestualista” dei picchiatori e dei massacratori. Questi, con i loro mandanti, se si trovano, restano purtroppo senza riscatto e assumono la responsabilità totale e ultima dei loro gesti. Ma capire è necessario. Quando slogan come “ammazzare un fascista (un nero o un rosso) non è reato”, “ammazzare uno sbirro non è reato”, "Alla luce del sole splendono le Hazet 36, simbolo dell'antifascismo militante", o altri ideologicamente omologhi o simmetrici arrivano sulla piazza, il percorso precedente deve essere individuato per cogliere l’attimo nel quale il “sonno della ragione” genera i mostri.
Una domanda esige risposta per evitare equivoci: è lecito opporsi con violenza a chi usa la violenza per imporre le sue idee o aggredire le tue? E’ giusto diventare massacratore per massacrare un massacratore? Si tratta di un dilemma che non può consentire facili alibi o fughe, quando i suoi termini si pongono in modo tragicamente evidente (cfr Dietrich Bonhoeffer), come spesso avviene nella storia quando la libertà è aggredita da potere perverso e violento. Reagire con durezza alla violenza è ineludibile, ma fin che restano strumenti di rappresentazione democratica e di garanzia di verifica legittima e politica, questi vanno applicati. La responsabilità di chi innesca il ciclo violento è enorme: l’esperienza storica (e di cronaca) ci dimostra che sono cicli senza fine. La tutela della propria libertà non è delegabile. E arrogarsi la tutela della libertà altrui è sempre equivoco.
Mentre oggi pacatamente analizziamo e discutiamo della violenza, del sonno della ragione e dei mostri degli anni ‘70, non ci rendiamo conto che quel veleno è ancora presente nella nostra società. E’ sorprendente in Italia la sicurezza con la quale molti affermano che ci sia una “differenza morale” fra la violenza praticata da una o dall’altra parte. Anche in aree insospettabili della professione giornalistica, dell’Università e della Magistratura si ritrova, dato per scontato, l’assunto della “differenza morale” tra una violenza e l’altra. Un pregiudizio reso ancora più pericoloso perché somministrato con apparente obbiettività e confezionato in termini di autorevole ragionevolezza. Ci sono ancora cose che non si possono dire e una di queste è che quella distinzione non ha dignità e va denunciata come germe di pregiudizio reazionario. C’è chi pensa alla violenza come ad un male necessario per far vincere le idee di libertà, di progresso, di cambiamento sociale. Una illusione tragica: la violenza si pone al contrario come una barriera impenetrabile per le splendide idee che vuole promuovere con le chiavi inglesi e le mazze chiodate. Le condanna e le fa condannare dalla ineludibile reazione e dal disgusto che provoca. Io sono per l’illuminismo senza ghigliottina, per la primavera senza Primavalle e senza compagni che sbagliano. C’è oggi una nostalgia del ’68 che vede in quella fase uno splendido sbocciare di nuove idee e l’inizio di cambiamenti epocali. Si dice l’Europa è oggi diversa grazie alla primavera del ’68. Può anche essere vero, ma ci si deve anche domandare come sarebbero oggi l’Italia e l’Europa se non avessero dovuto pagare quella primavera con gli anni del terrorismo e delle bombe rosse e nere. E siamo proprio convinti che la Società sia così radicalmente cambiata e che si viva in una nuova era dove le istituzioni rispettano i cittadini e viceversa? Vedo solo prevaricazione intorno: le banche arroganti e truffatrici, le grandi industrie e corporazioni padrone, sindacalismo fazioso o connivente, le istituzioni prevaricano invece di servire, il voto dei cittadini tradito da alleanze trasversali e fittizie, i giornali al servizio dell’arroganza e dello strapotere. L’università impestata dalla burocrazia e da una penosa presunzione meritocratica: erano meglio i “baroni” almeno alcuni erano capaci e intelligenti. Il burosauro è sempre disperatamente stupido. Gli ex giovani del ’68 vivono integrati e felici nel peggiore dei sistemi. Il resto è silenzio e marginalità di miseria e droga. Mi domando: valeva la pena violare la primavera per promuovere una reazione di questo genere? No: la violenza è sempre reazionaria. Al disperato bisogno di una “visione”, della più modesta utopia per non parlare di sogni, risponde Bertinotti associandosi a Prodi, con la benedizione di Fassino.
Il seme della violenza Basta fare un rapido giro su internet per trovare i siti dei giustizieri, delle chiavi inglesi e delle mazze: tutti ancora e sempre convinti di essere depositari della verità e tutti convinti della necessità di “eliminare fisicamente” gli altri. Ognuno convinto di essere “indiscutibilmente il migliore”.
Lanfranco Pace e Giuliano Ferrara svolgono analisi ragionevoli e fredde, dicono che l’Italia è maturata “oltre” il settarismo viscerale, si considera con orrore il revival del “rogo di Primavalle”, e di tutti gli altri roghi, pogrom, linciaggi, pestaggi, massacri, genocidi, sparizioni e torture. Ma il sonno della ragione striscia nell’opinione pubblica, la distrazione del “mainstream” prepara di nuovo il terreno per nuove possibili esplosioni. Dobbiamo quindi pensare che “il sonno della ragione” non sia una condizione accidentale, congiunturale: è strutturale e radicato nella cultura collettiva e nei comportamenti sociali. Forse anche peggio: è parte del patrimonio genetico della nostra specie. Una forma di gerarchizzazione dei problemi finalizzata alla soluzione dei pericoli immediati e contingenti ereditata dal “cacciatore” preistorico si è trasformata in rimozione di futuri sgradevoli. La matrice della conformità. Il “mainstream” preoccupato per il presente è distratto sul futuro, sempre in uno stato di dormiveglia e pronto al “sonno della ragione”. I mostri, sempre gli stessi, invisibili preparano i veleni.
Cosa fare allora? I moderati e gli scettici, non fanno rivoluzioni, non scendono in piazza e non fanno girotondi che, anzi, guardano con sospetto, come luoghi di espressione ed esaltazione della conformità. Lo scetticismo è una passione fredda, costante e quotidiana. Difficile da praticare perché dispiace a tutti. Irrita tutti. Tutti sospettano, dietro lo scetticismo, una linea aventiniana, supponente, elitaria, qualunquista o pregiudizialmente antagonista. Quest’ultimo sospetto può essere corretto: lo scetticismo è antagonista nei confronti di qualunque fede o dogma o presunzione di verità. Lo scetticismo è omologo all’eresia: al rogo quindi! Quando si rifiutano gli atti di fede ideologica questa è la marcatura che consegue: chi “crede” sospetta e teme chi non “crede” e lo sente profondamente “altro”. Tutti sentono il germe destabilizzante della posizione “non-etica”. La verità è che la verità non esiste: un mio slogan da sempre, ma che non implica affatto la rinuncia a cercarla. La ricerca di quel vero, che sappiamo non esistere, è un classico della “utopia ragionevole”. Il vero guaio però non sta nel “credere” o nella “fede” in una delle tante ideologie: il vero guaio è il sospetto, il rifiuto e l’ostilità nei confronti degli “altri” che può arrivare nelle menti deboli, attraverso la strumentale esaltazione, al limite del fanatismo e del desiderio di annientamento.
Ci sono molte forme di arroganza, una in particolare mi interessa perché si insinua nel costume corrente come una droga piacevole che provoca assuefazione: la chiamerei l’arroganza passiva del conformismo, l’arroganza di chi partecipa, inerte, dell’opinione dominante o congiunturalmente comoda e si ritiene quindi esente dal debito critico quotidiano, o, meglio che non si pone nemmeno il problema di un possibile debito critico. Peggio, che considera con qualche fastidio o con sufficienza i “grilli parlanti” che si permettono di dire, “non abilitati” (io domando da chi?), la loro opinione. E’ questa la forma più pericolosa di conformismo proprio perché implicita e supportata dalla potenza di manipolazione dei mezzi di comunicazione pubblici, TV e giornali. E’ anche l’unica però sulla quale l’azione preventiva può avere senso. Impossibile infatti intervenire sulle forme esplicite di intolleranza e di arroganza che richiedono radicali revisioni culturali e di condotta dei soggetti individuali e sociali, quasi sempre inattuabili: queste si devono esaurire, isolate, per superamento generazionale o per logoramento da contro-informazione. Chi si ammala di questa malattia è difficilmente recuperabile: si può solo svolgere una intensa azione sociale preventiva sperando che sia anche una terapia efficace.
L’azione preventiva da svolgere nel sociale, nelle istituzioni e in particolare nella scuola, è la resistenza attenta, sistematica, continua e quotidiana alle diverse forme di arroganza del conformismo. E’ una azione semplice, ma richiede tenacia e un pò’ di coraggio e la si può descrivere sinteticamente nel seguente modo: ascoltare l’opinione degli altri, elaborare la propria ed esprimerla per sottoporla sistematicamente al vaglio critico dell’opinione altrui. Essere capaci di cambiare opinione.