Non c'è pace senza libertà

Discorso alla Camera del deputato di Forza Italia, Ferdinando Adornato, sulla crisi internazionale irachena. Roma 19/3/2003

L'onorevole Ferdinando AdornatoSignor Presidente, signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, il nostro dibattito ha assunto a tratti toni davvero irreali. L'opposizione, salvo l'onorevole Fassino - ma poi ci tornerò -, parla come se l'Italia stesse decidendo di entrare in guerra. Non è così. È bene allora ricordarlo al paese, viste le reazioni. Nessun soldato italiano parteciperà al conflitto; il nostro non è e non sarà un paese belligerante. Noi oggi decidiamo solo ciò che è già previsto dai trattati internazionali esistenti e cioè la concessione dell'uso delle basi e la facoltà di sorvolo. Lo facciamo votando in quest'aula, a differenza del 1999, prima che qualsiasi conflitto cominci. Nonostante ciò, veniamo politicamente aggrediti con la pretesa che l'Italia decreti un vero e proprio atto di ostilità nei confronti degli Stati Uniti rifiutando loro un sostegno logistico che, ripetiamolo, persino Francia e Germania non negano. Altro che continuità, onorevole Rutelli! Questo è un atto - quello che sta nella vostra risoluzione - che muterebbe l'intera storia della nostra politica estera e persino la nostra collocazione in Europa. Noi comprendiamo la coerenza dell'onorevole Bertinotti, ma siamo preoccupati che la logica del «senza se e senza ma» diventi la logica politica dell'intero centrosinistra, una logica che vi porta oggi su vecchie posizioni antiatlantiche. Ebbene, sappiate, e lo sappia l'Italia, che questa non potrà mai essere la logica di governo di una grande nazione occidentale!

In un momento così difficile ci aspettavamo maggiore compostezza e responsabilità e da questo punto di vista ringrazio di cuore l'onorevole Rutelli, perché con il suo intervento ha consentito ciò che, secondo noi, doveva avvenire fin dall'inizio e cioè che anche la sinistra applaudisse le parole del Presidente del Consiglio. Pur esibendo le vostre legittime posizioni, ci aspettavamo che, sia pure soltanto uno di voi, si augurasse, come ha comunque fatto Chirac, una rapida vittoria degli alleati, ma nessuno lo ha fatto; oppure, che qualcuno imitasse almeno Bill Clinton, il quale, pur contestando Bush, ha inviato una lettera di aperto sostegno a Blair, entrambi una volta vostri amici, riconoscendo che: «la minaccia di veto non ha aiutato la diplomazia».

Ci saremmo almeno accontentati di ascoltare le stesse parole che D'Alema, da Presidente del Consiglio, pronunciò in quest'aula nel 1999, le ricordo: «Chiedo al Parlamento di non sacrificare, in un momento così cruciale, la comune responsabilità verso gli interessi del paese». Facciamo nostre queste sue parole, onorevole D'Alema, le facciamo nostre oggi come il centrodestra le fece sue allora, peccato che sia lei a non farle più sue, venendo meno alla stessa responsabilità che allora chiedeva giustamente e implicitamente suggerendo una ardita teoria politologica, secondo la quale l'unica guerra giusta sarebbe quella che avviene quando la sinistra è al Governo. Se c'è una differenza tra il Kosovo e l'Iraq, entrambi conflitti senza un mandato ultimativo dell'ONU, essa è una sola: allora l'Italia entrava direttamente in guerra, oggi no. L'Italia non lo fa per un semplice motivo, onorevole Fassino, perché questa maggioranza, approfittando dell'opera sempre più accreditata del nostro Premier, ha inteso finora e intende per il futuro,fin dalla riunione del Consiglio europeo di domani, semplicemente ritagliare all'Italia un'altra linea, una linea di equilibrio e di mediazione nell'aspro confronto che si è aperto nella comunità internazionale. Un ruolo che corrisponde alla storica vocazione dell'Italia ed alla necessità di sanare le ferite aperte nell'ONU, nell'Unione europea, nella NATO, soprattutto per il ruolo di Presidenza che competerà al nostro paese nel prossimo semestre. Si tratta di un ruolo che esige grande prudenza e diplomazia - come fa a non capirlo onorevole Fassino? - anche a costo di correre il rischio di apparire in qualche occasione silenziosi o non espliciti. Per tale motivo abbiamo giudicato nefasta l'ipotesi di un conflitto che nascesse con una spaccatura dell'ONU; non ci riconosciamo, cioè, nell'esito finale del lavoro di mediazione, che pure Bush e Powell fin dall'inizio hanno cercato, così come non abbiamo considerato utile che diversi paesi, Francia in testa, mostrassero di dimenticare che le pur parziali conquiste degli ispettori erano dovute unicamente alla pressione militare che americani e inglesi, non francesi, esercitavano nei confronti dell'Iraq, mentre, al contrario, la risoluzione n. 1441 pretendeva un disarmo immediato e senza condizioni, ed è quella la base di legittimità del conflitto odierno. Quel che sarà certo comunque alla fine di tali confronti, è che l'ordine mondiale richiede un nuovo disegno. Viviamo in un pianeta completamente diverso dal passato, un pianeta che ha assistito l'11 settembre alla terribile epifania della guerra globale del terrorismo in un quadro nel quale l'ordine di Yalta era già da tempo superato, perciò abbiamo bisogno di strumenti nuovi.

Il mondo non può essere guidato da una sola superpotenza, né vogliamo che crescano nuove superpotenze tra loro antagoniste. La nostra generazione deve, viceversa, immaginare un nuovo multilateralismo democratico, con sedi internazionali rinnovate nelle strutture e nelle regole, perché l'ONU fatica a stare al passo con i tempi. L'Europa può, e deve, essere attore centrale di questo nuovo multilateralismo, ma - ecco il punto politico - noi non pensiamo che il volto europeo del multilateralismo possa e debba essere costruito in contrasto con gli Stati Uniti. Ecco il punto politico. Se Chirac pensa questo, commette un autentico errore storico; la nostra generazione deve andare oltre Yalta, ma non per tornare indietro agli anni trenta, quando una Europa riottosa ed ostile verso Washington si infilò in un buio tunnel, dal quale sono stati poi gli americani a liberarla.

Oltre Yalta vuol dire riproporre con nuovi diritti e nuovi doveri un'alleanza indissolubile tra le grandi democrazie liberali del pianeta e studiare nuove forme di collaborazione con le aree più arretrate del mondo. Signor Presidente, nessun paese democratico oggi si sente equidistante, così anche l'Italia che solennemente ribadisce oggi in quest'aula la sua amicizia con gli Stati Uniti e la sua avversione nei confronti di Saddam. Auspichiamo una vittoria rapida degli alleati e la definitiva liberazione dell'Iraq dal suo tiranno che poi, come Milosevic, dovrà essere processato da un tribunale internazionale. Vogliamo ricordare alle ragazze ed ai ragazzi del nostro paese una cosa importante: la pace è e deve essere per tutti un valore supremo e universale, ma la parola pace, separata dalla parola libertà, perde ogni valore. Può esserci pace, infatti, anche nel rumoroso silenzio delle dittature, là dove tutto tace, perché viene negato e vilipeso ogni diritto umano e siccome si è parlato della cultura cattolica, vorrei ricordare l'enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII che ricordava come la pace «può esistere solo nel pieno rispetto del principio che ogni essere umano è persona, soggetto di diritti inviolabili e che essa» - la pace - «può realizzarsi solo se fondata su verità, giustizia, amore e libertà». A tale proposito però vorrei osservare che non è giusto da parte di nessuno trasformare la Chiesa o il Papa Wojtyla in un leader politico, osannandolo e ricusandolo a seconda delle convenienze, strumentalizzando il suo magistero pacificatore, non pacifista, a puri fini di parte. Pace e libertà, questo sta scritto sulle nostre bandiere ed invitiamo anche noi ad esporle in tutte le case del paese, con una sfida però alle bandiere arcobaleno: aggiungete, aggiungiamo a chiare lettere anche la parola: libertà, senza peraltro dimenticare che la più solenne bandiera di pace resta per tutti noi quella italiana, quella del nostro paese! Al tempo del Kosovo tutti invocammo l'emergenza, l'ingerenza umanitaria: era vero, ma attenzione, il nostro cuore non può andare solo lì dove vogliono i media. Le immagini dei profughi kosovari colpirono giustamente l'emozione del mondo e crearono consenso a quella guerra. Ebbene, oggi, solo perché la TV non ce li ha mostrati, dobbiamo forse dimenticare i 4 mila villaggi, le 2 mila scuola, le 2 mila e 500 moschee, i 300 ospedali e chiese distrutte da Saddam?

Dobbiamo dimenticare i 2 milioni di curdi che sono stati deportati? Dobbiamo dimenticare che 5 mila di essi, bambini, vecchi e donne, sono stati sterminati con gas nervino, quello stesso gas che per 12 anni Saddam ha nascosto ad ogni ispezione dell'ONU? Non le abbiamo viste in TV, ma non le abbiamo comunque davanti ai nostri occhi quelle immagini? Attenti allora a questo strabismo mediatico: la politica deve tenere gli occhi aperti, anche senza le TV, altrimenti renderemmo i nostri popoli responsabili di una tragica indifferenza umanitaria. Per tale motivo, noi che vogliamo la pace oggi diciamo: Iraq libero senza se e senza ma e lavoreremo perché intorno a questi principi di pace e libertà la comunità internazionale, l'Europa, assieme agli Stati Uniti, ritrovino la via maestra di una rinnovata unità ideale e politica.