Nassiriya un anno dopo - Nam, nam lilsalam

Edoardo Pacelli

È passato un anno, ma il ricordo del sacrificio di questi eroici italiani non sarà mai dimenticato. Un anno fa, 12 novembre del 2003, un mercoledì. Laggiù a Nassiriya, città a sud dell’Iraq, sono le 10,45 del mattino. C’è calma dinanzi alla due palazzine che ospitano i militari del contingente italiano. Un tempo qui aveva sede la Camera di Commercio. Palazzine anonime sulle rive dell’Eufrate, un po’ bruttine, militari di guardia, filo spinato. È l’Iraq del dopo Saddam, della pace che non è arrivata, un Paese dilaniato dal terrorismo e dai seguaci del raìs che hanno deposto e subito ripreso le armi, bombe, kamikaze, al Qaeda. In Italia c’è chi urla che quella guerra non bisognava farla. Vittorio Agnoletto sta organizzando una manifestazione per il dietrofront, parla di esercito di occupazione, spiega che gli iracheni non vogliono il male di nessuno, che il loro Paese è stato invaso. Quello stesso giorno stava per verificarsi il peggior atto criminale contro le nostre forze armate dopo la seconda guerra mondiale.

 

A un anno dalla strage del 12 novembre 2003 un ferito manca all’appello (è tornato al suo posto). Toni Capuozzo, inviato del tg5, ricorda Massimo Ficuciello e gli altri uomini periti nella strage di Nassirja di un anno fa. Tratto da "Il Foglio" dell’8/11/2004

(…) Un anno dalla strage di Nassirja. Sembra sia passato più tempo, in Iraq e nel mondo e in Italia, a fare l’elenco delle cose che i diciannove morti di Nassiriyah non hanno visto: l’insurrezione dei lumpen di Moqtada, esplosa due volte e per due volte – con due battaglie, in entrambi i casi, nella stessa Nassiriyah – sconfitta. Lo scoppio della guerra dei sequestri – dai quattro addetti alla sicurezza alle due Simona – il congedo di Paul Bremer, l’accordo attorno a una Carta costituzionale, la formazione di un governo iracheno, il passaggio di consegne. L’incancrenirsi della ribellione restauratrice a Fallujah, la sua sconfitta a Samarra e Tikrit, la fissazione di una data per le elezioni.

Nel mondo, per quello che può interessare a un carabiniere o a un militare in missione, o a qualche giornalista che cerca di documentarne il lavoro: Atocha e Beslan, le elezioni afghane e la vittoria di Bush. Tutto questo non hanno visto Massimo Ficuciello e gli altri. Dico Massimo perché è quello che ho conosciuto meglio. Quando da giornalista stai in un gruppo di militari, e non hai confidenza con le armi, con il gergo militare, e qualche volta neppure con i gradi, ti aggrappi al primo cenno di intesa, alla prima zolla di terreno comune. Il tenente Massimiliano Ficuciello lavorava nella struttura di Pubblica Informazione della Brigata Sassari, diretta dal colonnello Gianfranco Scalas, un vecchio amico per tanti corrispondenti di guerra, da Sarajevo al Kossovo. Ed era facile diventare amici di uomini come il maresciallo Silvio Olla, o dei caporali Ferraro, Carrisi, Petrucci: ti portavano in giro con il loro blindato, detto scarrafone’, ti proteggevano, lavoravano per te e la tua sicurezza.

Ma Ficuciello aveva qualcosa in più: veniva dalla vita civile, aveva lasciato un lavoro in banca a Milano, aveva chiesto di tornare al servizio attivo proprio per partecipare alla missione in Iraq. Era un giovane uomo robusto, di aspetto piacevole, ironico e colto. Aveva studiato economia a Londra, parlava un inglese fluente. Era un italiano strano, come può esserlo il figlio di un militare: nato in una città, cresciuto in un’altra, la fidanzata a Roma, il lavoro a Milano, gli amici a Venezia, i genitori in campagna. Non era difficile immaginarselo in qualche bar di Milano, all’ora dell’aperitivo, con un giornale economico in tasca, una bella auto parcheggiata all’esterno, sorridente in mezzo a bella gente qualunque. Non aveva passioni politiche accese, non aveva nulla da cui dovesse fuggire e nulla cui correre incontro, ma aveva scelto di andare in Iraq, di fare la sua parte. Come succede sempre, adesso ho il rimpianto di non avergli chiesto abbastanza, attorno a quella sua decisione, attorno a quel richiamo accolto, attorno a quello scarto che poteva sembrare solo eccentrico o svantaggioso dal punto di vista della carriera o del rendiconto economico, e fu invece la sua ultima scelta. Quel 12 di novembre accompagnava Stefano Rolla e Marco Beci nella palazzina di Animal House, per girare alcune scene di un documentario il cui titolo provvisorio di "Soldati di pace" era stato appena cambiato in "Babilonia, terra tra due fuochi".

Un documento inedito

Sto lavorando a un pezzo televisivo che li ricordi, quei diciannove, in modo asciutto e sobrio, a un paese che ha memoria intermittente e che del resto è sopraffatto da tante notizie. Mi sono procurato un documento inedito, delle scene girate subito dopo l’attentato. Tutti noi, finora, avevamo visto solo qualche fotografia, e poi la scena notturna e spettrale della palazzina vuota. In queste immagini non viste si vedono i primi carabinieri feriti emergere dall’inferno. A soccorrerli, gli iracheni, ed è questo il primo dettaglio che colpisce. Il secondo sono quei corpi feriti e storditi che avanzano verso i soccorritori, i volti e le magliette blu insanguinate. Abbiamo visto le bare avvolte nei tricolori, e il cappello posato sul feretro, ma vedere un carabiniere ferito è un’altra cosa. Ce n’è uno, ferito, che sorregge sulle spalle un collega più grave, e sembra perfino rifiutare aiuto, sino a che non lo poggia su un’ambulanza. Un altro che viene adagiato sul retro di un camioncino, come vediamo fare con gli iracheni qualunque, quando il terrorismo punta su di loro (e del resto, in quella strage, morirono anche nove iracheni e 84 rimasero feriti). Ma insomma, lo vedrete, quel documento. Quello che volevo dire qui, mentre sto cercando di intervistare quei feriti, un anno dopo, è che uno di loro è irrintracciabile. E’ l’appuntato scelto dei carabinieri Ramazzotti. Non è in Italia, è di nuovo a Nassiriyah, al suo posto, senza retorica.

Che l'attentato di Nassirya sia completamente differente dalla guerriglia che gli americani devono affrontare in Iraq, contrariamente da quello che la media italiana e brasiliana vogliono fare intendere, si può dedurre dal tipo e dalle modalità dell'attentato, molto più simile a quelli contro l'ONU e la Croce Rossa Internazionale. Attentati contro coloro il cui intento è quello di aiutare la popolazione irachena al ritorno alla normalità. I 19 morti italiani hanno subito lo stesso sacrificio dei funzionari dell'ONU, sono morti perchè volevano veramente portare la pace in quel tormentato paese. Sono morti perchè la popolazione locale aveva capito che quei soldati non erano truppe di occupazione, ma forze di pace.

Ne è testimone Lorenzo Cremonesi, giornalista del Corriere della Sera dall'Iraq che, nel suo articolo del 15 novembre 2004, descrive lo stato d'animo della popolazione irachena di Nassirya, dopo l'attentato alle forze di pace italiane. "Nam, nam lilsalam": sì, sì alla pace, scandiscono in coro attraversando le vie della città, formando un corteo che vuole dimostrare la partecipazione al cordoglio degli italiani. "No a Saddam", "No al terrorismo", "I carabinieri morti sono fratelli degli iracheni morti nello stesso attentato criminale, siamo fratelli nel sangue", si legge sui cartelli scritti in arabo. Arrivano in prossimità della palazzina sventrata dall'esplosione proprio mentre a una quindicina di chilometri di distanza le bare delle vittime italiane stanno decollando alla volta di Roma dal grande aeroporto militare americano nella base di Tallil. Un tempismo voluto. Gli organizzatori della manifestazione lavorano a stretto contatto con la forza militare multinazionale, ne conoscono i ritmi, la burocrazia e naturalmente gli uomini. Tra i sostenitori della manifestazione c'è Mohammad Mahdi Al-Nassri, il leader religioso più importante della zona perché legato all'ayatollah Alì Sistani (con base a Najaf), l'uomo di punta degli sciiti moderati in tutto il Paese. Però l'attentato adesso rende tutti più sospettosi. Chi può dire che non ci sia qualcuno a identificare chi marcia in solidarietà con gli italiani? Ci vuole coraggio per mostrarsi. E coraggio lo dimostra Abdelkhader Al Taher, membro del nuovo consiglio municipale, che arrivato a ridosso del filo spinato disposto dal genio militare per circoscrivere la zona della palazzina devastata, si rivolge direttamente a un maresciallo dei carabinieri del Tuscania per esprimere il suo cordoglio: "Italiani, abbiamo apprezzato il vostro lavoro, il vostro coraggio, noi siamo con voi", dice tra gli applausi. Più in là c'è Najim Tai, il rettore dell'università locale. Esclama: "Non dovete mollare, non andatevene, la pace e la sicurezza dipendono da voi". Una buona risposta a chi crede o fa credere che gli italiani stiano in Iraq come forza occupante.