Lezione Americana

Gianni De Michelis - Tratto da Libero

A distanza di una settimana ritorniamo, in modo più meditato, sulla lezione che dalle elezioni americane dovremmo trarre noi europei e, soprattutto, noi italiani, a partire, ovviamente e soprattutto da quelli che questo risultato hanno salutato con soddisfazione. Partiamo dalla soddisfazione: si spiega perché essa sia stata massima tra coloro che negli ultimi tre anni hanno condiviso le scelte della prima amministrazione Bush, così come ovviamente massima è stata la delusione nelle file di coloro che da tali scelte si erano dissociati. Sbaglierebbero però i soddisfatti se limitassero il loro ragionamento alla semplice constatazione di essere stati dalla parte giusta e di potere, quindi, continuare a stare da quella parte, lasciando ai delusi l’ingrato compito di dovere, frettolosamente e dolorosamente, rettificare la loro posizione, visto che l’Europa sarà obbligata ormai ad una ritrovata armonia con gli Stati Uniti e quindi a ritrovare la sua unità attorno a tale armonia. Sbaglierebbero perché la lezione americana è in realtà più ricca e più complessa e chi non fosse capace di comprenderla appieno e per tempo, correrebbe il rischio di qualche delusione, nonostante l’avere puntato in tempi non sospetti sull’alternativa giusta. Innanzitutto, bisogna capire bene le reali ragioni per cui Bush ha vinto in modo così netto e squillante: non risiedono tanto nelle motivazioni ideali, culturali e politiche, su cui Bush ha basato il proprio messaggio elettorale, ma soprattutto nel fatto che egli ha saputo farlo con forza, senza incertezza, in modo da riuscire molto più capace dell’avversario a mobilitare l’elettorato e, in secondo luogo, a dare l’idea di essere capace di esprimere una guida decisa e sincera. Ciò ha significato interpretare molto meglio di Kerry i due bisogni che sono più diffusi oggigiorno nelle comunità umane e cioè il bisogno di politica e di leadership. Questo vale anche per l’Europa e, a maggior ragione, per l’Italia: le principali domande insoddisfatte nelle nostre comunità sono il bisogno di identità e di messaggi politici forti, riconoscibili e quindi convincenti, nonché la voglia di avere sistemi politici istituzionale e persone alla loro guida capaci di orientare in modo deciso e risoluto. Mediti, su questo, Berlusconi, e non si accontenti di constatare la consonanza del suo programma, su taluni punti, con taluna delle decisioni di governo del Presidente degli Stati Uniti. Anche perché per gli italiani vale quello che è valso per gli americani e cioè la capacità di indicare, senza incertezze, la rotta per affrontare il contesto che c’è oggi e soprattutto quello che verrà. E poi ancora ci si prepari a cogliere, senza ritardi, le novità che, inevitabilmente, la seconda presidenza Bush presenterà, soprattutto, ovviamente, in materia di politica internazionale: già se ne vedono i primi segnali, rappresentati dalla straordinaria decisione con cui il secondo Bush annuncia di voler affrontare, questa volta per risolverlo, il problema israeliano – palestinese: “I mean what I say” – ha detto Bush nella sua seconda uscita pubblica dopo la sua rielezione, riferendosi all’obiettivo della creazione di uno stato palestinese. A buon intenditor poche parole, e questo riguarda soprattutto il governo Sharon, ma anche quello dell’Europa, che proprio su questo terreno potrebbe, con l’Italia alla testa e non in posizione secondaria, recuperare non solo il rapporto con l’America ma anche un ruolo da protagonista politico e, naturalmente, perseguire ciò che rappresenta uno dei suoi interessi prioritari.