da Il Foglio - Roma, 5 febbraio 2003.
“L’accordo c’è: pieno e totale”, gongola Roberto Castelli, ministro
guardasigilli, portandosi delicatamente il fazzolettino verde al naso. Come un
fiore. “Altro che riformicchie: stiamo varando una riforma destinata a
rivoluzionare la vita e l’organizzazione dell’intera magistratura”,
rincara l’onorevole Giuseppe Gargani che per Forza Italia segue i problemi
della giustizia. E se mai non bastasse, ecco la conferma di Enzo Fragalà,
deputato di An. “Abbiamo stabilito che non ci fermeremo alla separazione delle
carriere”, sottolinea pettoruto. “Andremo avanti decisi, fino ad approvare
sia la temporaneità degli incarichi direttivi, sia la fine di quell’altro
privilegio che si chiama automatismo di carriera”. Chi l’avrebbe immaginato?
Fino a due mesi fa, tra An e gli altri partiti della maggioranza, c’era su
questi temi una manfrina trita e appassita. E se Forza Italia o la Lega
spingevano per mettere finalmente mano negli ingranaggi dell’ordinamento
giudiziario, dal partito di Fini venivano fuori dubbi o mal di pancia: vediamo
prima che cosa ne pensano loro, i giudici. Così dicevano. E così dicendo
mandavano al macero proposte e sottoproposte, puntualmente stritolate dai veti
dell’Associazione magistrati, messa lì a difendere non solo la propria
autonomia, ma anche poteri e privilegi. Soprattutto delle procure. Da una
settimana però la musica è cambiata. Colpa, forse, della sentenza della
Cassazione sui processi di Milano. O, più semplicemente, merito del particolare
taglio dato, al disegno di legge, da Castelli: una impostazione inattaccabile,
quasi fatta apposta per neutralizzare ogni tipo di opposizione. La riforma ruota,
essenzialmente, su tre punti. Riepiloghiamoli. Punto uno. Separazione delle
carriere: ci sarà un concorso per i giudici che vorranno scrivere sentenze e un
concorso per i magistrati inquirenti, quelli cioè che faranno le indagini e poi
andranno davanti alle Corti per sostenere l’accusa. Punto due. Temporaneità
degli incarichi direttivi: un procuratore, o un presidente di tribunale, non
potrà più rimanere a capo di un ufficio per oltre quattro anni. Punto tre.
Fine dell’automatismo di carriera: non potrà più esserci avanzamento senza
una valutazione che dica se hai fatto bene o male, se sei un genio o una mezza
cartuccia. Oggi, invece, un magistrato, qualunque magistrato, ha la possibilità
di restare per tutta la vita dove vuole, anche nel posto più sperduto, e
ottenere automaticamente tutte le promozioni e gli aumenti di stipendio che
spettano a chi invece ha studiato di più ed è arrivato fino ai più alti gradi.
“Non a caso”, ricorda Gargani, “l’Italia conta tremila magistrati di
Cassazione. Ma appena trecento stanno, a Roma, negli uffici di piazza Cavour.
Gli altri non ci hanno mai messo piede”. Una medicina per tre malanni La forza
della riforma, sostiene Gargani, sta nell’essere la medicina idonea per curare
non uno ma tre malanni. Intanto, introduce un correttivo, come la separazione
delle carriere appunto, che rende “più sano il diritto e più giusto il
processo”: se il giudice deve essere terzo, è necessario che “sia altro da
lui” anche l’accusa, come lo è la difesa. Poi introduce il merito, che non
è roba da poco, “perchè è l’unica chiave in grado di aprire la porta dell’efficienza
e darci magari, chissà, una giustizia più veloce e più giusta”. Infine,
questa riforma dovrebbe anche eliminare, almeno così si spera, quella pastetta
di piccoli e grandi privilegi davanti ai quali ogni altro funzionario dello
Stato comincia a tremare d’invidia. “Si è mai visto”, arringa Fragalà,
“un questore, un prefetto o un generale dei carabinieri che dopo avere
conquistato un posto di potere se lo tiene stretto per tutta la vita? Gli unici
a non poter essere trasferiti sono i magistrati. L’inamovibilità, sostengono,
serve a garantire la loro indipendenza. Ma non regge. E lo dice lo stesso Csm,
il quale ha stabilito che un giudice della sezione fallimentare, dopo sei anni,
deve comunque fare le valigie: poiché maneggia materia delicata, rischia di
costruire attorno a sé un pericoloso grumo di potere. Bene, ma perchè lo
stesso grumo non può essere costruito da altri cento magistrati altrettanto
potenti e inamovibili?”. Il dibattito sui privilegi ha già spinto il
presidente dell’Associazione dei magistrati, Edmondo Bruti Liberati, a usare
nei confronti della riforma toni parecchio cauti. E lascia sperare, ai
sostenitori di Castelli, di potere contare domani in Parlamento anche su quegli
esponenti dell’opposizione mai intruppati nella sinistra giudiziaria. Tra
questi, Giuliano Pisapia, di Rifondazione comunista. Che non si tira certo
indietro. “Ritengo indispensabile per il bene stesso della magistratura”,
dice al Foglio, “gettare a mare tutti questi ferri vecchi”.