In
un momento grave com'è questo inizio del terzo millennio e alla vigilia dell'anniversario
della sua morte, avvenuta il 19 gennaio di due anni fa, si sente come non mai l'assenza
di Bettino Craxi. La macerie delle torri gemelle di New York impastate con i
poveri resti delle migliaia di vittime stanno ancora fumando. Il processo di
pace in Palestina non riesce a diventare neppure una sospensione degli scontri
per almeno 48 ore. E Luciano Violante ammette forse un po' tardivamente:
"E' vero, nel passato ci sono stati eccessi giustizialisti e perfino una
presenza eccessiva di magistrati nella commissione giustizia o perché
magistrati parlamentari o perché membri degli uffici legislativi dei ministeri.
Tutto questo ha fatto si che in una fase ha pesato molto più il magistrato che
l'avvocato". Un periodo durante il quale, come ha ricordato qualche tempo
fa Grazia Volo, avvocato difensore di Calogero Mannino, a causa di condanne che
oggi i tribunali difficilmente ripeterebbero è stato compiuto un abominio:
"aver fatto morire in esilio Craxi, un uomo che aveva una sua grande
complessità certamente superiore alle sue inevitabili responsabilità".
Gli attenti terroristici, i ripensamenti di Violante, le condanne e la morte di
Craxi sono avvenimenti tra loro disgiunti. Ma è proprio così? Proviamo a fare
una ipotesi e a porci una domanda. L'ipotesi: Bettino Craxi anziché
rinchiudersi nella villa di Hammamet per salvare, oltre la propria vita, almeno
un simulacro di libertà, rimane alla ribalta della politica attiva. La domanda:
in tal caso, la situazione in Medio Oriente si sarebbe aggravata fino al punto
di diventare una crisi apparentemente senza sbocchi come oggi la conosciamo? Con
i se e i ma non si fa la storia e neppure la si riscrive, è ovvio. Tuttavia per
chi conosceva il rapporto di reciproca stima e di sincera amicizia che legava
Arafat a Bettino Craxi è del tutto naturale chiedersi come avrebbe potuto
evolversi la situazione palestinese con Craxi vivo e a capo di un partito, il
Psi, se non addirittura di un governo, quello italiano. Craxi fu il primo leader
europeo a riconoscere la legittimità della lotta armata dell'Olp, come ricorda
Arturo Gismondi nel suo libro "La lunga strada per Hammamet", dove la
paragona a quella condotta da Giuseppe Mazzini per l'indipendenza nazionale.
Quando ancora nessuno osava pensarlo, Bettino Craxi sosteneva che la via della
pace poteva passare solo attraverso una trattativa diretta tra Olp e Israele e
il ritiro di quest'ultimo dai Territori occupati. Solo molto più tardi anche
gli Usa e lo stesso Israele si renderanno conto che questa era l'unica strada
percorribile. Una presa di posizione, quella del segretario del Psi, la cui
portata internazionale e il peso avuto nel riconoscimento dell'Olp non è mai
sfuggita ad Arafat che ha sempre dimostrato la sua riconoscenza. Un sentimento
rafforzato da come il governo italiano condusse le vicende della Achille Lauro e
Sigonella. Secondo taluni, due eventi che spinsero alcune correnti della lobby
ebraica americana a "complottare" per la caduta del leader del
socialismo italiano. Una versione che Craxi ha sempre respinto, convinto che l'aggressione
politica-mediatica-giudiziaria nei suoi confronti, che vedeva gli eredi del Pci
in prima linea, era solo farina del sacco nazionale.
Il lungo esilio, gli innumerevoli processi, le durissime condanne, il rifiuto di lasciarlo curare in Italia fino a provocare la morte dello statista italiano, eliminava dallo scenario internazionale uno dei pochi politici europei in grado di ispirare e sostenere il dialogo di pace tra Palestina e Israele. Oggi appare evidente che la mancata soluzione della vicenda palestinese sia una concausa dell'ondata di terrorismo che l'integralismo islamico ha deciso di utilizzare contro l'Occidente. Non è facile riscrivere la storia, gli anni della Grande Menzogna sono ancora incombenti, le strida che accompagnavano la "Ghigliottina italiana" appena sopite. Sopra tutto questo campeggia la vergogna di aver lasciato morire un uomo, Bettino Craxi, che aveva sempre avuto una visione dinamica della politica internazionale contrassegnata dall'amore per il suo paese e per i diritti dei popoli.