Massimo Teodori (Il Giornale, 31/07/2005)
È la politica estera che identifica una
nazione, la sua forza, la sua compattezza e la sua credibilità internazionale.
Le grandi scelte internazionali forse non pesano molto sul voto degli elettori
ma qualificano la classe dirigente e segnano il destino della comunità
nazionale.
Che sarebbe stato dell'Italia se nel dopoguerra non avesse scelto l'Occidente, con il piano Marshall e l'Alleanza atlantica? La nostra storia repubblicana, non solo politica ma anche economica e culturale, sarebbe stata diversa.
Oggi il terrorismo globale senza frontiere ripropone come prioritaria l'azione internazionale, specialmente per garantire più sicurezza. Politica estera e politica interna, come non mai, sono perciò intrecciate.
Chi pensasse di potere affrontare il temibile nemico rinserrandosi nell'orticello nazionale, sarebbe anacronistico e folle. Di fronte all'emergenza, però, anche la forza (...) (...) della nostra nazione si misura dall'unità che riesce a esprimere superando le divisioni partigiane. Le grandi democrazie occidentali hanno sempre affrontato in maniera bipartisan i momenti difficili garantendo la continuità nazionale con politiche estere non contraddittorie seguite da governi di opposto orientamento. Da noi, invece, con Prodi si prospetta il completo ribaltamento della politica estera.
Con l'inopinata dichiarazione del leader ulivista per il ritiro immediato dei militari Italiani dall'Irak in caso di vittoria elettorale, lo strappo va molto al di là del punto specifico.
La presenza italiana in funzione di peacekeeping sui teatri afghano e irakeno fa parte della stessa politica estera che poggia su alcuni pilastri tra loro interdipendenti: solidarietà atlantica con gli Stati Uniti; presenza attiva nell'Unione Europea; rispetto delle risoluzioni dell' Onu; e partecipazione solidale alla lotta al terrorismo in Europa e in Medio Oriente.
Questi diversi aspetti sono parte dell'unica tradizione di un'Italia soggetto attivo nel sistema internazionale dentro e non fuori dalle alleanze occidentali. È vero che la rottura di Prodi risponde a un'altra, diversa e opposta tradizione di politica estera.
Quella della sinistra democristiana dei Gronchi e Dossetti che si opposero al Patto Atlantico; dei neutralisti europei sponsorizzati dall'Unione Sovietica affinché abbandonassero la solidarietà occidentale; del pacifismo antiamericano dei Gino Strada che si apprestano ad entrare nell'Ulivo sotto il segno dell'Arcobaleno; e degli antiglobalisti di Bertinotti che rivendicano i loro valori contro la democrazia politica e il libero mercato che connotano l'Occidente.
Ma abbracciando questa prospettiva l'Italia si collocherebbe ai margine dell'Occidente liberale e democratico. Per quasi mezzo secolo l'ancoraggio dell' Alleanza atlantica (infine riconosciuta necessaria dallo stesso leader del Pci Enrico Berlinguer) tenne l'Italia al riparo dal totalitarismo comunista. Oggi, di fronte al nuovo totalitarismo islamista, l'Italia non può procedere in ordine sparso nell'illusione di separare la lotta al terrorismo in Irak da quella in Europa. Ritirarsi da soli dall'Irak significa gettare la spugna di fronte ai nichilisti.
Perciò l'annuncio di Prodi è pericolosissimo. Perché prospetta una rottura nella tradizione di politica estera occidentale e getta un'ombra pesante sull'eventuale governo di centrosinistra proprio mentre la parte più responsabile dell'opposizione fornisce una prova di affidabilità votando le misure antiterroristiche del ministro Pisanu.