Il
Foglio dell'11/02/2003 sotto il titolo "una strana e bella Italia"
commenta una caratteristica dell'Italia berlusconiana che forse sfugge a molti,
troppo occupati in Italia nella quotidiana battaglia contro il mostro, ma che
non sfugge a chi vede l'Italia attraverso il filtro della distanza. Per esempio
dall'Australia o dal Brasile: non per caso, io che sto in Australia, ho letto la
notizia rimbalzata da Italiamiga, vivace e brillante 'zine "online"
degli Italiani in Brasile. L'Italia, sotto il conclamato strapotere
informazionale e mediatico di Berlusconi, è stranamente, più libera. O forse
non troppo stranamente. Quello che sta succedendo, senza che molti oltre al
Foglio(accio) se ne accorgano, è che, per una specie di contrapasso, la
aggredibilità di Berlusconi "libera" una capacità espressiva che in
Italia è sempre stata schiava della conformità. E cerco di spiegarmi.
Berlusconi è una strana figura di non politico anomalo: non ha fatto la gavetta
nelle sezioni di nessun partito e non ha alcuna esperienza di dialettica o di
etichetta conforme alla consumata categoria dei politici italiani e dei loro
linguaggi. Quindi si esprime in un "pastasciuttese" diretto e spesso
greve con frequenti impagabili gaffe di portata nazionale e internazionale.
Celebre, e oggi "digerita", la frase con la quale commentò l'arretratezza
della civilizzazione (non disse cultura) dei paesi Arabi. Dicendo, con grande
candore, una pavimentale, evidente verità. Il "pensiero dominante"
come l'avrebbe chiamato Novello (chi si ricorda del "Signore di Buona
Famiglia"?). Scatenando i lazzi sufficienti delle schiere della sinistra
conforme che "doveva" difendere a tutti i costi anche l'indifendibile
e che commetteva - Umberto Eco in testa - l'imperdonabile errore di confondere
"civilizzazione" con "cultura". Cosa che il "Berlusca",
istintualmente guidato dai suoi diretti e franchi sentimenti lombardo-brianzoli,
non aveva fatto.
Molti sono gli aspetti che consentono di "aggredire" Berlusconi: alcuni tratti personali di "self-made man" che urtano l'Italia infatuata dalle eleganze principesche e insostanziali di Gianni Agnelli e dei "ricchi da sempre". Una esuberanza lombarda e giovanile qualche volta vicina al "buffo" e, per gli Agnelli-lovers e i dalemiani, decisamente pacchiana. L'eccesso formale delle sue cravatte ultrabanali (pois bianchi in campo azzurro/bleu) e dei suoi doppiopetti (doppipetto o doppipetti?) grigi con la piega dei pantaloni cosi netta che ci si potrebbe affettare la polenta. Alcuni logismi da promotore immobiliare (Mi consenta…) e un sorriso sempre troppo tirato che indica la intima (e, vivaddio! apprezzabile) fragilità. La caratteristica però che urta di più l'intellighenzia della sinistra salottiera e da circolo della vela italiana è la sovrana e positiva carenza di preparazione o di filtro "ideologico" del suo parlare e ragionare. Talmente sovrana che io la sospetto invece "astutamente" coltivata come formidabile strumento eversivo in una Italia da sempre abituata a sguazzare nel brodo stantio del "cioè voglio dire; qui lo dico e qui lo nego; in un'ottica diversa; ammesso e non concesso; non si può semplificare….ciao caro…" e nell'etica del "Franza o Spagna purché se magna".
Gli altri elementi, meno cosmetici, della aggredibilità del personaggio sono le sanguigne storie della sua carriera di "tycoon" in una Italia (anni 70-80-90) strutturalmente impostata sulla corruzione e sul finanziamento dei partiti come metodologia e prassi di impresa e di pensiero, dove la Fiat, l'IRI, l'ENI, l'Italstat, Montedison, le Banche e, generalmente parlando, tutti gli imprenditori pagavano bustarelle e bustacchione, si compravano partiti, ministri, segreterie di partiti, giornali e giornalisti, ispettori, brigadieri e marescialli della Finanza, e cercavano tutti i modi per non pagare le tasse e lucrare sulla inefficienza, più o meno coltivata, dello Stato. Alcuni facevano e sapevano, alcuni facevano fare e sapevano, alcuni non potevano non sapere e i migliori potevano lasciar fare e non sapere. Su queste storie sono impegnati alcuni tribunali ed è quindi meglio astenersi dal commentare, ma una cosa è interessante: parte di quell'Italia non è sopravvissuta alla "fase", parte è rientrata nell'ombra, parte è stata poderosamente "tutelata" durante la fase. Pochissimi, oltre a sopravvivere, hanno deciso di scaraventarsi nel pantano della politica Italiana e uno solo è riuscito a diventare Presidente del Consiglio dei Ministri e oggi viene sistematicamente aggredito e torchiato come emblema dell'Italia "di prima". Qualche riflessione da fare. Quello che mi interessa sottolineare, e che il commento sul Foglio ha sollecitato al mio pensiero, è che sia proprio la "aggredibilità di Berlusconi come persona, ex imprenditore, nuovo politico, nuovo Presidente del Consiglio la struttura della sorprendente nuova libertà Italiana: la gente si esprime, dice quello che pensa, travolge la conformità di una sinistra "di maniera" più che di sostanza. Molto più importante ancora, e vitale: cambia idea. E se necessario la ri-cambia; è finita, o perlomeno cosi sembra, l'Italia nella quale non si poteva "dire male di Garibaldi" e nella quale la sinistra intellettuale e salottiera era ingessata sulle categorie conformi del grande partito. Sono caduti gli steccati ideologici e gli orticelli della "political correctness": dire quello che si pensa non è più rischioso nelle Università, nelle scuole e nelle accademie. Nelle assemblee di condominio e nelle bocciofile. Su questa nuova fertile condizione si sta frantumando la "sinistra" stessa che scopre la sua inesistenza come "blocco unico" e la sua vitale ragione di essere come luogo di pensiero multiforme e disaggregato. Non so se Berlusconi mi piaccia o non mi piaccia, perché certe cose che fa mi piacciono e certe non mi piacciono: sono però sicuro che questa fase "berlusconiana" all'Italia fa molto bene. Qualunque cosa dovesse succedere "dopo" si dovrà tenere conto di come è cresciuta la dialettica politica italiana grazie alla aggredibilità della figura di Berlusconi. E l'aggredibilità del personaggio è, innegabilmente, lui ignaro, un suo grande merito.