Il dopoguerra in Iraq

Lorenzo Matteoli 18 Luglio, 2003

I motivi per fare la guerra all'Irak, senza distinguere fra reali, dichiarati, falsi, non dichiarati, utopici, ideologici e di pura propaganda erano:

a. eliminare il pericolo delle armi di distruzione di massa: biologiche, chimiche, nucleari in essere o potenziali
b. porre fine alla dittatura sanguinaria di Saddam Hussein
c. porre le basi per un regime democratico e laico in Iraq
d. azzerare la funzione di supporto al terrorismo dell'Iraq
e. garantire agli Stati Uniti l'accesso e/o il controllo delle riserve petrolifere dell'Iraq
f. bloccare i contratti petroliferi dell'Iraq con Francia, Russia, Germania, Cina e Giappone ed ipotetici altri (Yugoslavia, Argentina, Brasile)
g. dimostrare la capacita' degli Stati Uniti di controllare o politicamente o militarmente il bacino petrolifero dell'Asia Centrale
h. istruire con tutti i mezzi, senza escludere gli interventi militari, una nuova strategia di politica estera degli Stati Uniti specificamente finalizzata alla difesa degli interessi e dei privilegi dell'unica superpotenza mondiale
i. impostare la base per una campagna elettorale vincente del presidente Bush Jr alle prossime elezioni presidenziali

Ognuno e' libero di mettere in qualunque ordine gerarchico l'elenco e di qualificare come meglio ritiene la credibilita' o la veridicita' di ogni singolo motivo. Per quanto mi risulta i motivi a, b, c, d sono stati esplicitamente dichiarati dagli Stati Uniti. I motivi e, f, g, h, i emergono invece con evidenza anche da una semplice critica storico/economica. Una discussione piu' dettagliata puo' essere interessante, ma gli scopi del mio attuale componimento sono diversi. Sono passati sei mesi dall'inizio della guerra e cinque dalla fine della sua fase prettamente operativa/militare. Siamo ora in regime di "occupazione militare" dell'Iraq e dovrebbe essere da tempo iniziata la fase di "ricostruzione". Una valutazione sul numero degli obbiettivi raggiunti e sul successo specifico acquisito nel raggiungerli non puo' che essere deludente. Anche il piu' ottimista degli osservatori arriva necessariamente a bilanci inequivocabilmente negativi. Anche in questo caso una analisi piu' elaborata puo' essere interessante, ma, di nuovo, lo scopo di questo esercizio e' piu' generale. Non mancheranno future opportunita'.

Una sola battuta: anche l'obbiettivo che potrebbe sembrare piu' sicuramente raggiunto, l'eliminazione di Saddam, e che suscito' gli entusiasmi dei primi momenti dopo la "liberazione" di Baghdad, e' oggi dubitabile. La guerriglia in corso dimostra che o lui o sue dirette emanazioni sono ancora in controllo e in grado di fare danni enormi.

Subito dopo la guerra, nel Marzo 2003, facevo un bilancio "a caldo", nel quale individuavo nella gestione del dopoguerra la fase cruciale per la giustificazione stessa della decisione di invadere l'Iraq. Nei numerosi "links" associati a quella nota ho seguito per parecchie settimane la tragedia quotidiana del fallimento prima di Garner e poi di Bremer nella gestione del "dopoguerra". Il grande, e innegabile merito, di avere abbattuto il regime di Saddam veniva a poco a poco macchiato e ridotto dalla gestione di assurda incompetenza e talvolta criminale del dopoguerra Irakeno. Alla presenza passiva dei marines prima e del Third Infantry poi avvengono saccheggi sistematici di ospedali, scuole, musei e la distruzione delle infrastrutture (acqua, fogne, energia elettrica). Si formano bande armate e milizie private, la citta' di Baghdad, dove la vita di ogni cittadino e' continuamente a rischio, e' completamente fuori controllo. Si ripetono, quasi come in un incubo, le immagini della peggiore esperienza Americana in Somalia. Le responsabilita' dei generali Americani sono enormi: un esercito di un paese terzomondiale si sarebbe comportato meglio. Il mondo intero si domanda come sia possibile una catastrofe di questo genere. Probabilmente era gia' in corso la predisposizione di una guerriglia controllata dai resti del deposto regime: lo scopo era quello di esasperare l'opinone pubblica e di creare il massimo caos e disagio per attribuirne le responsabilita' all'esercito di occupazione. Non essersene accorti e non avere predisposto gli adeguati presidi e' una responsabilita' che va molto oltre la semplice incompetenza. Una generale riflessione sulle carenze "culturali" delle istituzioni militari USA dovrebbe essere svolta. Ammesso che parlare di cultura di un esercito non sia un ossimoro. Dopo avere progettato la fase bellica nei dettagli piu' minuti la macchina militare Americana non aveva la minima informazione ne idea su come operare dopo la "vittoria". Peggio: queste idee e queste informazioni erano state fatte ben presenti all'Amministrazione USA da piu' parti: basti citare la piu' autorevole quella del Presidente dei Capi dello Stato Maggiore (Chiefs-of-Staff Chairman) Generale Shinseki che sulla base dell'esperienza fatta in Serbia e Kosovo (dove una situazione di gueriglia non si e' mai verificata) aveva previsto la dimensione di 500.000 uomini per l'occupazione dell'Iraq. La esperta previsione di Shinseki era stata dismessa dagli "eletti al governo" come irrilevante. Ieri (17 Luglio 2003) il generale John P. Abizaid il nuovo Comandante del Third Infantry in Iraq ha riconosciuto che l'esercito Americano deve ora combattere una guerra di guerriglia relativamente organizzata e coordinata. Nesssun esercito negli ultimi 50 anni di storia militare ha mai vinto una guerra di guerriglia, in genere e' successo sempre il contrario: Indocina, Vietnam, Algeria, Irlanda, Messico, Cuba, Palestina, Sudafrica. Il ciclo negativo del "guerrilla warfare" e' lo sfascio morale dell'esercito occupante, invasore o liberatore che sia, la sua reazione diventa sempre piu' crudele e inumana (torture, arresti ingiustificati, search and destroy etc.) con il conseguente consolidamento della struttura di guerriglia e delle sue motivazioni, fino alla conclusione ultima, emblematicamente rappresentata dall'abbandono di Saigon, con i disperati assalti agli elicotteri che partivano dal tetto dell'Ambasciata Americana. La durata delle guerre di guerriglia e' un altro elemento cupo: 10, 15, 20 anni… Il motivo per cui la guerriglia vince e', sempre e senza eccezione storicamente registrata, la sua radicazione nella gente e nel "sociale". La guerriglia "interpreta", in modo estremo e crudele, il senso comune della gente (orgoglio nazionale, appartenenza etnica, fede religiosa, etc.) e cosi' ne conquista l'appoggio e la protezione: il guerrigliero si muove fra la gente come un pesce nell'acqua. La guerriglia si avvale come strumento operativo fondamentale del terrore sia contro l'esercito "invasore" che contro la popolazione "invasa". Bombe, massacri, stragi, torture vengono applicati sistematicamente sui due fronti. La popolazione protegge i guerriglieri per timore di orribili rappresaglie: per rendere queste potenziali rappresaglie credibili ed efficaci queste vengono attuate, in modo preventivo e a titolo di "dimostrazione", contro soggetti emblematici, o indicati come tali. In Iraq la dinamica classica della guerriglia si sovrappone, o integra, con il conflitto fra le etnie Sunniti, Sciiti, Kurdi, a sua volta complicato dalle diverse interpretazioni del dettato religioso islamico. Sul tutto gravano tensioni indotte da interessi nazionalistici Iraniani, Turchi e Pakistani spesso espresse con strategie di destabilizzazione terroristica e di infiltrazione sovversiva. Sulla base di quanto e' successo finora non sembra che i generali dell'esercito USA siano attrezzati con "intelligence" e "cultura" adeguate alla gestione di questo micidiale assetto esplosivo. La scelta che hanno fatto dei loro interlocutori Irakeni e' a dir poco infelice se non apertamente criminale (cfr Chalabi), la loro competenza sulle condizioni storiche e sociali ell'Iraq e' precaria, i comportamenti fino ad oggi istruiti confusi, contraddittori e talvolta di aperta provocazione, consapevole e non. I serbatoi di competenza culturale sull'Iraq disponibili in molti "campus" degli Stati Uniti non vengono intercettati e il Dipartimento di Stato preferisce le sue fonti, nonostante l'evidente carenza e incompetenza da queste gia' catastroficamente dimostrata. In difetto di una visione culturale adeguata non ci sono molte speranze di uscita positiva dall'attuale intrico, e le "visioni culturali" si possono comperare, ma e' molto difficile "parteciparle", farle proprie e utilizzarle nella prassi quotidiana corrente. Il filo di speranza che la guerriglia Irakena possa essere sconfitta e' che sia veramente una operazione gestita solo dai resti del regime Baathista/Sunnita e dai sopravvissuti luogotenenti di Saddam. Se cosi' fosse gli unici elementi strutturali della guerriglia sarebbero il terrore, la violenza e la crudelta' imposti alla popolazione dai torturatori del vecchio regime. Mancherebbe l'elemento ideologico di coagulazione, il fondamentale legame di solidarieta' tra la gente e i guerriglieri che e' l'indispensabile garanzia per la vittoria finale di ogni strategia di guerriglia (cfr Vietnam, Algeria, Cuba) Un tentativo di ricetta?

a. liberare gli Irakeni dal terrore di Saddam con operazioni di "costruzione di fiducia"; b. rompere la potenziale, mortale connessione solidale dei "guerriglieri" con la popolazione attraverso programmi di partecipazione economica (il petrolio degli Irakeni); c. impostare una strategia separata, specifica e diversa per le tre regioni etniche Suni, Sciiti, Kurdi; d. individuare e organizzare l'operativita' di interlocutori Irakeni che siano espressione di sentimenti e valori locali e non delle Agenzie di Washington (CIA, Dipartimento di Stato, amici di Rumsfeld, amici di Kissinger, amici di Bremer, amici di Chalabi etc.); e. strutturare per Baghdad/Mossul/Bassora specifiche Authority urbane; f. accelerare e concludere a qualunque costo i lavori di ripristino delle infrastrutture fondamentali (acqua, energia, telefoni, fogne, trasporti, scuole e ospedali) nelle aree metropolitane: Baghdad, Mossul, Bassora

I sei punti dovrebbero essere esecutivi senza specifica priorita': tutto, subito.

Il discorso di Tony Blair al Congresso Americano Ieri (17 Luglio 2003) di fronte alle sessioni riunite del Congresso Americano Tony Blair, emaciato e logorato fisicamente, ma idealmente fortissimo ha fatto forse il piu' bell'intervento della sua carriera. Difficile non farsi prendere dalla passione travolgente di Blair e dalla sua logica tesa e raffinata dalla condizione psicologica di assedio. Meglio, molto meglio la passione "politica" di Blair dell'ipocrisia contorta della vecchia Europa di Chirac, Schroeder, Putin.

"… come possiamo essere sicuri della associazione fra terrorismo e armi di distruzione di massa? Diciamo solo che se abbiamo sbagliato, avremo comunque distrutto un potere che come minimo e' stato responsabile di massacri e sofferenze inumane. E questo e' qualcosa che la storia sicuramente perdonerà. Ma se chi ci critica ha sbagliato, e se noi siamo nel giusto, cosa che io credo e della quale sono convinto con ogni fibra del mio istinto e della mia mente, e se sapendo, fossimo rimasti inerti e avessimo esitato di fronte a questa minaccia invece di intervenire come e' dovere categorico di chi ha responsabilità di comando, questo e' qualcosa che la storia non perdonerà"…. … …E così l'America deve guidare e al tempo stesso deve ascoltare. Ma, membri del Congresso, non giustificatevi mai per i vostri valori…" … "… e so bene che e' difficile per l'America, e che in qualche piccolo angolo di questo grande paese, laggiù nel Nevada o nell'Idaho o in questi posti dove non sono mai stato e dove avrei sempre voluto andare… so bene che là c'e' qualcuno che trascorre la sua vita felicemente,occupandosi delle proprie cose e chiede a voi, i leader politici di questo paese - ma perché proprio io? perché noi? e perché l'America? - E la sola risposta e': perché il destino ti ha messo in questo posto nella storia, in questo momento nel tempo, e questo e' il tuo compito.

Ed è anche il nostro compito, del mio Paese che vi ha guardato crescere, con il quale avete combattuto e che adesso combatte con voi e che e' orgoglioso della nostra alleanza e dei nostri comuni legami di affetto: il nostro compito e' di essere là con voi. Non sarete soli. Saremo con voi in questa battaglia per la libertà. E se le nostre idee saranno giuste e il nostro coraggio fermo il Mondo intero sarà con noi."

Tony Blair ha indicato all'Europa, senza incertezze, che chi e' leader nel mondo non si puo' permettere la neutralita' e l'astensione di fronte a genocidio, massacri, torture e killing fields; ha ricordato agli Stati Uniti che non si puo' essere leader senza ascoltare, ha denunciato il nodo mortale del conflitto tra Palestina e Israele come luogo "matrice" del veleno terrorista. Nel suo discorso la franchezza dura del messaggio si e' accompagnata all'autorevolezza del rigore logico e alla forza della passione sincera. L'ascolto del Congresso Americano e' stato quello delle grandi occasioni storiche. I membri del Congresso degli Stati Uniti avranno modo di riflettere piu' a fondo e non senza amarezza sulle parole di Blair quando cercheranno di capire le cose che Blair non ha detto, ma che ha fortemente evocato, per chi sa intendere, con l'invito ad "ascoltare": la poverta' del terzo mondo indotta dal protezionismo Americano, il torbido passato degli Stati Uniti come fomentatori e finanziatori del terrorismo nell'America Centrale e in Sud America (Guatemala, Chile, Colombia, Venezuela…), in Indonesia e in Irlanda, la poverta' disperata del "quarto mondo" nel cuore della societa' Americana, la segregazione dei neri in molti Stati del Sud, la ghettizzazione degli omosessuali, lo sfruttamento della pornografia infantile da parte del grande business, la gun culture … Chi vuole essere leader mondiale e campione di liberta' e di democrazia, chi vuole avere il titolo per esportare questi valori, chi vuole veramente essere nella posizione di "non doversi giustificare per i propri valori" deve avere il coraggio di affrontare il tradimento e la decadenza del grande sogno Americano, e di riscattarlo per le prossime generazioni. Se gli errori finora commessi in Iraq saranno riconosciuti e imporranno la necessaria umilta' ci potra' essere il perdono della storia. Se no le decine di migliaia di morti Iraqeni (un intero esercito annientato) e le centinaia di morti della Coalizione resteranno senza riscatto. L'intervento di Tony Blair, interrotto piu' volte (18 volte) dagli applausi ammirati dei membri del Congresso in piedi, accolto alla fine da 5 minuti ininterrotti di "standing ovation", e' il discorso della "fondazione" di un nuovo modello per le relazioni internazionali e per le strategie che le devono guidare. Se questo dovesse diventare il nuovo modello sul quale orientare le Nazioni Unite, dovrebbero essere contati i giorni di Mugabe nello Zimbabwe, di Sung in Corea, della Junta militare a Burma, dei signori della guerra in Rwanda, Burundi, Nigeria e Liberia. Cosi' come dovrebbero essere contati i giorni di Arafat in Palestina e di Sharon in Israele. Se le Nazioni Unite non riusciranno a crescere in questo ruolo e a rappresentarlo adeguatamente, dovremo contare solo sulle coalizioni di nazioni che si assumono la responsabilita' di supplenza. E quando dovesse succedere non avrei dubbi sulla parte di barricata dalla quale vorro' essere, con amarezza e tormento per l'alternativa perduta. L'odore del petrolio e il sospetto della strumentalita' sono piu' accettabili del lezzo dell'ignavia Europea che, comunque, copre ipocritamente gli stessi identici interessi.

LM

Nota: mentre in Iraq viene ammazzato un soldato Americano al giorno e mentre gli Stati Uniti devono affrontare una situazione critica (militare, economica, politica e culturale) fra le piu' gravi della loro storia la prima pagina dei giornali Americani del 18 luglio apre con il titolo centrale sulle avventure sessuali di un giocatore di pallacanestro della NBA. Forse la democrazia gestita dai media e dall'ignoranza e' arrivata al capolinea ed e' tempo di rileggersi il De Re Publica di Platone e sognare le "oligarchie di saggi". Con buona pace di Tony Blair e di molti altri, me compreso.