Guerra, non guerra

Lorenzo Matteoli - Perth, Febbraio 18, 2003

Le manifestazioni in tutto il mondo contro la guerra all’Irak sono state una delle più significative espressioni della globalizzazione del confronto politico planetario. A fronte di queste manifestazioni restano, per ora, inalterate le posizioni degli Stati Uniti e del Regno Unito e poco si è mosso sul fronte opposto e su quello degli incerti o ambigui intermedi. Apparentemente, il giorno dopo. Continua sulla stampa di tutto il mondo il confronto fra i commentatori e il dibattito fra falchi e colombe alla ricerca di un argomento capace di convincere sui motivi di una guerra "preventiva" o sulle ragioni di una pervicace difesa del negoziato ad oltranza. Mentre la piazza passionale si esprime con slogan fulminanti (Senza se e senza ma) la discussione dei commentatori si articola in modo sempre più sofisticato, dove invece i se e i ma sono decisamente la parte più importante. Vediamo rapidamente quali sono i poli del dibattito. 

Guerra per il petrolio: 

Una guerra all’Irak (o a qualunque altro stato islamico) esalterebbe sia le giustificazioni storiche che le motivazioni psicotiche. Un fiume di denaro fresco e una folla di volontari esaltati sarebbero immediatamente disponibili per qualunque reclutatore operasse su qualunque piazza. E Osama Bin Laden ha già cominciato la campagna. Questa evidenza deve essere chiara anche per Bush/Cheney/Rumsfeld e quindi ci si domanda come mai insistano su un assunto insostenibile. Ovvero cosa nascondono e perché questa cosa nascosta è "impresentabile". Saddam Hussein è un dittatore sanguinario e pericoloso: un buon motivo? Peccato che si possa applicare in modo anche più consistente a qualche decina di altri dittatori sanguinari alcuni dei quali molto più pericolosi di Saddam Hussein. Se gli Stati Uniti si fossero da sempre assunti questa responsabilità planetaria, la tesi sarebbe sostenibile. Quando gli Stati Uniti hanno voluto fare fuori dittatori corrotti e sanguinari oppure onesti e regolarmente eletti capi di stato non graditi lo hanno fatto senza fare guerre di azzeramento: Kissinger è stato un maestro e l’elenco è dolorosamente lungo. 

Credibilità degli Stati Uniti: 

dice Zakarias (intervista con M. Suttora su il Foglio del 15/02) a questo punto se invece di fare la guerra mandiamo 200 ispettori non siamo più credibili. Tesi tortuosa: si proclama l’idea di una guerra con motivazioni fragili, o razionalmente non sostenibili e poi, quando tutto il mondo insorge, si sostiene che se non si fa la guerra ne va della credibilità degli Stati Uniti. Forse bisognava pensarci prima di proclamare la "crociata" sotto il trauma dell’11 Settembre. 

Necessità elettorali di W. Bush: 

certamente un fattore dominante fino a pochi giorni fa. Dall’11/9 in poi la azione di Bush e’ stata dominata dalla necessità di riscontrare e soddisfare l’opinione del mainstream USA. Con il graduale e travolgente cambiamento dell’opinione pubblica americana attualmente in corso, questo fattore potrebbe scadere nella classifica delle priorità. Se questo avvenisse sarà interessante vedere la manovra dei media al servizio degli strateghi elettorali della Casabianca. La spina di Israele: Israele deve tornare nei suoi confini e uno Stato indipendente Palestinese deve essere fondato e riconosciuto. In questo "nodo" si incistano, oltre alla matrice fondamentale del terrorismo islamico (storicamente giustificato) i problemi elettorali di Bush che non ha il coraggio e la forza di liberarsi dal condizionamento sionista sulla politica estera e interna degli Stati Uniti. Forse, con la guerra a Saddam Hussein, Bush spera di provocare una dinamica di eventi che lo esenti in qualche modo (più o meno catastrofico) da una decisione chiara e responsabile su questa "spina" della politica interna degli Stati Uniti che da mezzo secolo avvelena i rapporti internazionali. 

Ridisegno della geopolitica dal Medio Oriente al Caucaso: 

gli Stati Uniti si sono resi conto della insostenibilità attuale e futura di tutto l’assetto geopolitico dal Medio Oriente al Caucaso (Arabia Saudita, Kuwait, Giordania, Israele, Palestina, Emirati, Yemen, Egitto, Libano, Siria, Irak, Iran, Afghanistan, Kurdistan, Kashmir, Pakistan, Tchechnia, Caucaso ex Sovietico etc.) come determinato dalla Lega delle Nazioni e dal Foreign Office inglese all’inizio del secolo e dagli avvenimenti successivi (WW2, separazione India Pakistan, dissoluzione della USSR, rivoluzione in Iran etc.). Tutto da rifare: confini, competenze, regimi corrotti, monarchie totalitarie, signori della guerra, oppio, commercio di armi. Una enorme vasta polveriera con potenziale esplosivo immane e allo stato attuale assolutamente incontrollata. 

Cominciamo dall’Irak: 

chi ben comincia è a metà dell’opera. Tesi grandiosa e visione molto plausibile se non vera: c’e da domandarsi se Bush/Cheney/Rumsfeld ne siano effettivamente capaci? è legittimo dubitare. Ci si domanda anche se il modo migliore di affrontare questo problema/visione sia quello di fare una guerra settoriale che forse eliminerà un dittatore, ma che comporterà un crollo vero di autorevolezza e di credibilità degli Stati Uniti come "Stato Guida del Nuovo Ordine Mondiale" e innescherà migliaia di antagonismi locali in tutto il mondo. E’ assai poco probabile che il dopoguerra in Irak si svolga secondo le rosee previsioni USA: occupazione della US Army e quindi instaurazione di un regime democratico "amico". Era l’ipotesi dell’Afghanistan che sta naufragando in un mare di signori della guerra e gruppi di guerriglieri/banditi assolutamente fuori da qualunque controllo. Karzai se sopravvive, non ha speranze di vedere un Afghanistan unito e democratico. E nemmeno l’America. Gli antagonismi tribali e di setta non sono integrabili negli schemi della "democracy" made in USA. La democrazia non è un prodotto che si esporta (lo diceva Stalin, insieme a molti altri). La grande visione utopica di Woodrow Wilson che associava gli interessi degli Stati Uniti alla promozione della democrazia nel mondo, culminata nel clamoroso fallimento della League of Nations, ha di fatto registrato molta più promozione di interessi che di democrazia. Ma è rimasta consolidata l’immagine della "grand strategy" ancora oggi assunta come convincente copertura da Bush Sr, Clinton, Bush Jr. Come dice Fisk: "Non ci credo più."

Ma allora perché?

Bush e l’America (una parte almeno) sono ancora sotto il trauma dell’11/9. Come si disse con facile profezia il 12 settembre 2001: nulla sarà più come prima. Quello che succede in America oggi è qualificabile come "conjuncture syndrome": si pensa e si decide sotto la pressione psicologica di un trauma che non è stato ancora assorbito (se mai lo sarà). La reazione è una sintesi di molti fattori e provo a riassumerli in uno solo concetto. In qualunque proiezione strategica di scenari mondiali per i prossimi vent’anni (more of the same) si vede che le tendenze attuali convergono su tre punti fondamentali:

La diplomazia americana aveva previsto fin dal 1943 l’avvento di un nuovo isolazionismo: gli interessi dell’America sono troppo forti e troppo privilegiati per non essere radicalmente antagonisti (inconciliabili) con quelli del resto del pianeta. Hanno teorizzato questa ipotesi molti commentatori (Walter Lippman, George Kennan, Charles Krauthammer) e, significativamente ultimo e recente Henry Kissinger (nel volume Diplomacy, 1995) che ha invitato esplicitamente i responsabili della politica estera americana a rispettare di più gli interessi effettivi rispetto ai valori ideali. Cosa che certamente lui aveva fatto rasentando, e spesso oltrepassando, il margine della criminalità. La fase è iniziata ufficiosamente molti anni fa e ha avuto una prima clamorosa manifestazione con la guerra del Golfo e andrà via via definendosi in modo sempre più specifico. Non è l’imperialismo americano: è la lotta per la tutela del privilegio USA e cioè della "loro" visione di sopravvivenza. Bush forse intuisce questa motivazione e la esprime ancora confusamente travestita nel linguaggio della "grand strategy" Wilsoniana, non avendo la strumentazione culturale e politica per esprimerla in termini attuali e presentabili. O per svolgerla in termini dignitosamente praticabili. Se ve ne sono. In questo quadro il resto del mondo deve cercare altre strategie: nella brutalità dialettica di Bush il concetto è stato enunciato in chiare lettere il 12 settembre: o con noi o contro di noi. Lui credeva di riferirsi al terrorismo. L’imperativo categorico dell’Europa sfrangiata e divisa di oggi è quello della ricerca di una terza via: aggredire il "more of the same". Le difficoltà principali sono la scarsa articolazione intellettuale di Bush Jr, la totale indifendibilità di Saddam Hussein, la ferocia dei falchi israeliani, la disponibilità alle pratiche terroristiche di Arafat, il condizionamento sulla politica interna americana delle lobby di Israele, la realtà imprendibile del pericolo terroristico, la debolezza militare dell’Europa disunita, la debolezza delle Nazioni Unite, la attuale ambiguità del contratto NATO, la impermeabilità dialettica del mondo arabo, la impreparazione Europea a negoziare con la cultura araba, la forza degli interessi economici USA in Europa. Sopratutto: la paura. C’è urgente bisogno di un grande statista.