Gianni Agnelli

Lorenzo Matteoli per ITALIAMIGA - Perth gennaio 2003

Ho letto con attenzione quasi tutti i messaggi di partecipazione e condoglianze inviati a La Stampa e ho letto un po' di "eulogie" pubblicate dai giornali italiani e stranieri. Non ho visto la televisione italiana perché vivo in Australia. Ho cercato di confrontare l'ondata di sentimenti e di passioni espresse dai Torinesi e dagli Italiani con i miei ragionamenti e il mio sentire. La sua morte ha esposto con drammatica evidenza il disperato bisogno di "Principi" dell'animus Italiano.

Non ho conosciuto Agnelli se non in modo "mediato": attraverso i rapporti con la Fiat e alcuni suoi dirigenti, attraverso le storie pubblicate dai giornali e le sue rare fotografie sui rotocalchi. Come tutti gli Italiani. Ho cercato nelle biblioteche e in rete suoi scritti, saggi, articoli o libri: si trovano solo biografie scritte da giornalisti o da professionisti della penna. Di originale suo non sono riuscito a trovare nulla. Ho avuto con lui un "dialogo a distanza" deforme e mediato in occasione della vicenda dello Stadio delle Alpi di Torino, io assessore e lui presidente della Fiat e della Juventus se avessimo avuto un vero incontro forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse meglio, forse peggio. Di lui ho scritto una voce nel mio "dizionario dello stadio" che riletta dopo qualche anno mi sembra adeguata e corretta. Mi ha sempre affascinato il pensiero di una vita vissuta nell'onnipotenza: tutto quello che vuoi fare lo puoi fare. Vedere luoghi, comperare cose, conoscere personaggi, pagare personaggi, investire grandi somme di denaro nelle iniziative che più ti stimolano culturalmente o per sfizio. Mi sono spesso domandato cosa succede a un uomo mortale quando gli vengono dati gli strumenti di un semidio. Alzarsi la mattina andare a sciare al Fraiteve, poi in Costa Azzurra per fare due bordi su Agneta YCI e la sera a Londra o a Parigi a cena con Rotschild o con Jane Fonda, o Elle McPherson… Certamente non aveva tempo per "scrivere" saggi, articoli o tantomeno libri. Scriveva sintetici e micidiali promemoria. Telefonava, e si esprimeva colloquialmente per battute "fulminanti": stroncava cinicamente, apprezzava scetticamente, usava con eleganza l'ironia e la eccezionale conoscenza del mondo che la condizione di "semidio" gli consentiva. Usava con garbo naturale l'intelligenza, il potere e il fascino del potere. Coloriva il suo già vivido personaggio con alcuni vezzi naturali (la "erre" e il sorriso distante) e artefatti (l'orologio sopra il polsino e la cravatta fuori dal gilè). L'immagine che si era costruita su di lui era travolgente: pochi sfuggivano al fascino di Gianni Agnelli. Era avvenuto quasi naturalmente e per effetto combinato della sua giovinezza di orfano adottato dal "senatore", della avventura in Russia nella seconda guerra mondiale, delle avventure di play-boy negli anni 50 e 60, del potere, della ricchezza, della formale cortesia nel comando e nei rapporti personali. L'immagine era anche "potente" e lo protesse nell'incontro ravvicinato con "mani pulite": per i "milanesi", a differenza di altri presidenti, Agnelli poteva "non sapere". Anche in quella occasione, di fatto non smagliante, l'"aura" di Agnelli si rafforzo'. Altri vennero lussuosamente sacrificati. Il mio sospetto alla luce degli ultimi anni Fiat/Torino è che nemmeno lui sfuggisse al fascino di se stesso. Era in qualche modo un prigioniero dorato della sua stessa scintillante immagine. Isolato, astratto, distaccato unico protagonista del paradigma "agnelli". I suoi amici, dirigenti, consiglieri, confidenti, segretari, avvocati, giornalisti, collaboratori, skippers, allenatori gli dicevano quello che intensamente speravano gli facesse piacere. Lo sforzo dei dirigenti era quello di "capire" cosa avrebbe pensato il Principe per poterlo anticipare e per evitare la frecciata sarcastica o, ancora peggio, la annoiata dismissione. In questa splendida prigionia si trova, a mio avviso, la spiegazione del suo graduale distacco dalla realtà e della sua incapacità conseguente di "vedere" cosa stava succedendo intorno a lui per poter decidere e intervenire. Il declino della Fiat in mano agli yes-men, la struttura del mercato "globale", il pericolo della cappa protettiva che la politica al suo "servizio" aveva costruito per la Fiat in Italia, il filtro della stampa posseduta e disponibile, la lusinga ammirata e la adulazione servile, diretta, indiretta, esplicita o implicita: nulla sembrava più emergere alla sua attenzione. Forse, invece, vede e capisce perfettamente, ma, per qualche motivo, non ha piu' voglia di intervenire e si ritira dentro la sua splendida immagine. Così l'intelligenza non si esprime più con autonomia critica originale, ma filtrata dall'immagine e dal ruolo che l'immagine gli attribuisce e che lui, a sua volta, assume in una sequenza subdolamente involutiva. Torino, la sua città per nascita e per cultura, non è amata, ma usata e sacrificata alle esigenze della Fiat. Il grande albero aziendale affonda le radici in un humus sociale e industriale oramai sterile. La fabbrica "mamma" ha dato da mangiare a tutti, ma quello che ha preso da tutti è oggi allo sconto: territorio, ambiente, cultura, investimenti, futuro, vita. Nel mercato globale e ferocemente competitivo la "protezione" del governo italiano non è più sufficiente a coprire le carenze qualitative. Nell'azienda cambiano le generazioni e i secchi promemoria del "principe" non possono sostituire una solida ed elaborata strategia industriale. L'indotto esausto dallo sfruttamento sistematico della "mamma" è travolto per carenza di innovazione. La "cultura Fiat" diventa un logismo negativo e provinciale. I dirigenti si dedicano alle faide interne per catturare il favore del "principe", e trascurano i loro compiti. L'immagine fantastica, brillante, efficiente, "smart", del Presidente non si trasferisce all'immagine dell'azienda che invece diventa sempre più modesta e slabbrata. Fix It Again Tony. Gianni Agnelli muore, lascia il vuoto della Fiat e l'enorme vuoto della immagine di lui che gli italiani avevano e che lui condivideva.