Fiat/General Motors: “…whatever…we sell”.

Lorenzo Matteoli - Febbraio 14, 2005

Basta un colpo d’occhio ai numeri per capire che la modesta conclusione della vicenda Fiat vs General Motors è solo una nuova tappa verso l’ineludibile fallimento della Fiat. I millecinquecento milioni di Euro (tremila miliardi di vecchie lire per noi che abbiano qualche difficoltà nell’immaginare le grandi cifre) risolvono un modesto problema di liquidità contingente: il trionfalismo di Montezemolo inganna pochi ingenui ed entusiasti “pautassi” e qualche Deaglio. “La Fiat di nuovo tutta Italiana!” è ancora più volgare come slogan, per il melenso sapore patriottardo e per il totale vuoto di significato. Il senso ultimo della vicenda è che Fiat Auto fa uno “sker¹ tale che GM ha pagato milleecinquecento milioni di Euro pur di non comperarla. Come se noi andassimo alla concessionaria Fiat e pagassimo una trentina di mila Euro per non comperarci una Fiat Punto. Mi consenta!

Va ricordato il trionfalismo che ha sempre accompagnato nella stampa di servizio tutti i più modesti episodi della vita aziendale: il lancio della ritmo, il lancio della punto, il lancio della tipo, il lancio della duna, … il lancio della panda … Ogni nuovo AD è sempre stato celebrato, dallo “star system” di Corso Marconi, come il mago che avrebbe salvato la Fiat oppure che l’avrebbe condotta vincente nella nuova realtà dei mercati automobilistici planetari: Debenedetti, Ghidella, Romiti, Cantarella, Fresco, Morchio, Boschetto: profili e carriere da fulmini di guerra del “corporate world”, grandi managers dal formidabile intuito logistico, finanziario, organizzativo, economico. Strateghi geniali dei CdA, abili e micidiali tattici degli scacchieri industriali globali. I loro allontanamenti più o meno coatti, duri e rapidi² da parte del “Prinsi³ , comunque sempre imbottiti di miliardi e gestiti nel silenzio morbido dei corridoi moquettati del “piano nobile” non hanno mai avuto grandi spazi sulla carta stampata di servizio: poche righe di schematico gergo aziendale. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole… e più non dimandare. Tutti ricordiamo i giorni trionfali della presa di servizio e insediamento, ma il ricordo della “fine” è sempre sfuocato per non parlare delle ragioni e dei motivi. In genere solo oggetto di sussurro a mezza voce scambiato fra i membri “sicuri” delle diverse “cordate”. Uno sguardo, un cenno (T’l’avia dilu!).

Una riflessione sui motivi delle tante, sistematiche e continue musate dei vari Alessandri Magni, Cesari (absit…), Napoleoni, Clausewitzi, forse potrebbe essere utile per individuare il “cuore nero” del problema.

Tanti geni, dai curricula inossidabili e dalla vita di successi travolgenti nel corporate world internazionale, arrivano al piano nobile del Lingotto (una volta Corso Marconi) e nel giro di poche decine di mesi affondano nella palude dei “cavalieri” e nella sentina dei “ragionieri” (chi conosce Corso Marconi sa di cosa parlo). Non salvano la Fiat e molti contribuiscono, con qualche geniale idea, ad affondarla sempre di più nel mare del guano aziendale sabaudo. Parliamo di gente che ha diretto corporazioni multiglobali superplanetarie fulminando miliardi di dollari con decisioni “split second” da lasciare stecchiti eserciti di azionisti e gestori di “funds”. Idoli dei Forums (Fora a dire il vero) di Davos, dell’Asean, della CEE: gente capace di mangiarsi quattro Gates al giorno e di denudare otto Iacocchi all’ora. Uella ragazzi! Arrivano a Torino e vengono lentamente (o rapidamente) logorati, digeriti e risputati dal combinato disposto Lingotto, Mirafiori, Marentino, Fiat Ricambi, Piazza San Carlo, Crocetta, Ponte Isabella, Precollinare, Collina. I casi sono due: o non sono poi così supermegamanagers, oppure la Fiat/Torino pone problemi che sono completamente al di fuori dei loro paradigmi. Forse la lingua? Oppure l’Italiano parlato con forte accento Sabaudo? Oppure la complessità delle cose non dette? Torino è una cultura implicita e chi non appartiene non ha speranze. Dodici anni fa scrivevo:

Ineludibile è la decadenza della Fiat, peraltro iniziata circa dieci anni fa: la modestia culturale e tecnica della sua gestione non ha futuro.

Siamo alla frutta: il tentativo di agguantare la GM per farsi trascinare fuori dalla palude non è riuscito. La GM si è liberata, pagando, dall’abbraccio mortale e la Fiat si trova di nuovo al punto di partenza: senza progetti, senza visione, senza linea di comando, senza obbiettivi, senza priorità. Preda di grammatiche ottuse e provinciali e di “cordate” interne che leticano sulle fotocopiatrici mentre il Titanic affonda. Montezemolo dice parliamo di auto, facciamo strategie, innovazione, modelli, facciamo sistema e altre belle cose. L’unica cosa che potrà fare sarà chiedere di nuovo protezione, soldi e legislazione ad hoc al Governo. I profitti che non riesce a fare fabbricando automobili scadenti e invendibili verranno sostituiti da sovvenzioni esplicite, implicite, nascoste o evidenti, da parte della mano pubblica. Come è sempre stato. Il motivo della lunga agonia della Fiat e, al tempo stesso, la causa della sua incapacità di sopravvivere con i suoi mezzi aziendali e industriali, in un mondo dove gli ultimi ”cavalieri” sono quelli di Malta.

I supermegamanagers sono abili in tutto, capaci di conquistare il “corporate world”, ma incapaci di capire la modestia della cultura dell’Archetipo Torinese, e di quello aziendale Fiat in particolare. Io, milanese a Torino da 30 anni, dicevo ai miei amici che venivano a Torino per lavoro o professione: Se ti interessa ti posso aiutare. Si, dicevano, e come? Ti posso dire quando i Torinesi dicono di si e quando dicono di no. Qualcuno capiva.

Il motivo della decadenza dell’Impero degli Agnelli è quello di sempre, il motivo di tutte decadenze di tutti gli imperi della Storia: l’inadeguatezza culturale e l’acciecamento da arroganza. Per una lunga serie di circostanze, innescata forse trenta anni fa con gli ultimi echi dell’era Vallettiana, e culminata con la personalità colorita e leggera dell’ultimo “Prinsi”³, la “cultura” della Fiat si è andata svuotando di contenuti e riempiendo di arroganza. Il “progetto” aziendale è diventato un farfuglio di parole e di gergalità insipida. La abilità dei managers si esercitava nello strozzinaggio sull’indotto e nelle furbizie della taccagneria di breve termine. Sulla competizione con i concorrenti esterni ha vinto la litigiosità parrocchiale delle “cordate”, fregarsi gli uni con gli altri e pararsi il culo nelle battaglie di scrivanie sono stati per anni gli impegni dominanti dei “managerini” e dei “cavalieri”. Le automobili vengono fuori per caso e, ovviamente, non sono molto appetibili ai mercati viziati dai prezzi, dalla qualità e affidabilità granitica dei Giapponesi.

Due parole sul duello Wagoner-Marchionne: la carta in mano a Marchionne era letale e di terrificante credibilità: “Whatever…we sell.” Bastava ripetere la battuta per provocare lo sconforto nella linea GM. Rick Wagoner sapeva benissimo che dietro Marchionne non c’era più volontà di impresa, progetto industriale, compattezza strategica e disponibilità al rischio. Solo un sicuro e micidiale …”whatever…we sell.” Montezemolo, che conosce bene le regole della pirateria corporativa, aveva dato questo semplice mandato. Gli Americani avevano già perso 4 miliardi e passa di Euro dalla firma dello sciagurato accordo e non si potevano permettere di pagare una catastrofe in corso del valore (ottimisticamente valutato) di altri dieci miliardi di Euro. Wagoner non aveva più credibilità da spendere con i suoi azionisti e probabilmente a causa di questo accordo malpensato verrà silurato: …”…whatever…we pay.” E’ stato bravo Marchionne come ha detto Salza? Conosce le lingue, ma il discorso più convincente che faceva era quello di vendere una catastrofe certa, del valore di 10 miliardi di Euro in cambio di una buonuscita di 1,5 miliardi di dollari. Pochi maledetti e subito. Poi si vedrà. “Whatever…

Ora il problema Fiat è diventato “Italiano”. Qualcuno nell’azienda si ricorda certamente come si fa a ricattare il governo con la minaccia dei licenziamenti: non ci vuole una grande abilità. Come “sparare sulla crocerossa” diceva Piero Fassino quando faceva il Consigliere Comunale. O era Carpanini?

Il compito per rilanciare la Fiat è quindi semplice: re-impostare una vera cultura aziendale. Semplicemente impossibile. Non ci resta che aspettare la prossima tappa del fallimento lento. Che, ovviamente, la stampa di servizio truccherà da grande trionfo.

1) Gergale Torinese “a’m fa sker” = mi fa schifo
 2) in genere meno di 24 ore tra “detto e fatto”.
3) Prinsi in Torinese Principe. Diceva Valletta: “ A l’è ‘n Prinsi? Ca fassa ‘l Prinsi!”