Lo hanno prelevato nella stanza dei prigionieri, condotto fuori, in un campo,
obbligato a scavarsi la fossa, bendato, poi, costretto in ginocchio, gli hanno
sparato. Due colpi in testa. Sapeva perfettamente a cosa andava incontro,
conosceva il macabro rituale retaggio nazista e non solo nazista. Ma Quattrocchi
ha vinto la paura. Ha eseguito a puntino gli ordini. Non una lacrima, non uno
sfogo isterico. Un istante prima di essere abbattuto, ha detto con voce calma e
ferma: adesso vi faccio vedere come muore un italiano; e ha tentato di
strapparsi la benda. Voleva vedere la morte in faccia e voleva mostrare ai suoi
carnefici che era capace di morire in piedi benché lo avessero piegato con la
violenza sulle ginocchia. Piegato negli arti, non nello spirito. Ci sono due
motivi che possono aver spinto a negare la visione alla comunità islamica. Sono
immagini controproducenti, per due motivi. Mostrano la ferocia gratuita della
"Falange del Profeta Maometto". Soprattutto: si vede che il nemico è
un uomo, e che uomo è. Avrebbero dovuto tradurre dall'italiano all'arabo la
frase: "Ti faccio vedere come muore un italiano!". C'è un modo di
morire che non è una sconfitta, ma una vittoria. C'è un orgoglio magnifico
della nostra identità e delle nostre radici. Gli islamici avrebbero visto che
cos'è un martire. Martire vuol dire testimone: e Quattrocchi, un tipo comune,
un ragazzo italiano come tanti, ha documentato morendo che alla fine gli
assassini temono lo sguardo puro e forte della loro vittima. Ha raccontato Imad
El Atrache, giornalista di Al Jazeera: "Ho visto il film dell'esecuzione.
Sono stato il primo a riconoscere Fabrizio Quattrocchi, e a percepire e
comprendere le sue ultime parole. Ho avuto il triste privilegio di comunicare la
notizia all'ambasciatore italiano e al mio vecchio e carissimo amico Renato
Farina. Non abbiamo fatto altro che sentirci e sostenerci a vicenda,
professionalmente e umanamente, in quelle ore. Qui voglio raccontare minuto per
minuto com'è stata travolta la mia esistenza, ma soprattutto i secondi decisivi
della vita di un uomo, di un poveretto. Quando tutto era compiuto e la notizia
diffusa nel mondo, ho voluto far sapere una cosa bella, e ho desiderato che ne
fosse avvertito il governo italiano. Ho telefonato, in Italia era da poco
passata l'una di notte, a Renato e gli ho detto: "Io non so che lavoro
facesse in Iraq Quattrocchi. Ma era un uomo di coraggio, di grande coraggio. È
morto con dignità e forza. Sapeva di morire, non ha chiesto pietà, ne sono
ammirato". Ho chiesto subito al montatore di farmi vedere le immagini:
semplicemente agghiaccianti. Ecco quello che ho visto. L'ostaggio aveva le mani
legate sul davanti. La stessa maglietta, gli stessi calzoni già visti. Ho
capito che era Quattrocchi, anche se aveva un turbante bianco e nero che gli
avvolgeva la testa e gli impediva di vedere. Accanto, una piccola fossa. Ed ecco:
odo la sua voce. Una voce sorprendentemente pacata e direi anche spavalda, una
forza interiore stupefacente. Ha detto testualmente, in italiano: "Ti
faccio vedere come muore un italiano!". Un secondo di silenzio, la voce
continua: "Posso...". Stava alzando le mani. Voleva togliersi il
turbante, deduco, e guardare chi lo uccideva. Non fa in tempo: gli arriva un
colpo di pistola alla testa. Sento un "aaahhh!", ma non come un grido,
bensì una breve inspi- razione, un sospiro. Un altro colpo! Il secondo
proiettile! Le immagini successive mostrano l'ostaggio ucciso a volto scoperto,
nella fossa. Il filmato finisce così. Nonostante abbia vissuto la guerra in
Libano ed in tanti altri posti, e nonostante sia tornato dall'Iraq da poco
tempo, non sono riuscito a dormire fino all'alba. Mi tornava in mente
Quattrocchi, la sua voce che diceva: "Ti faccio vedere come muore un
italiano".