Come muore un italiano: Fabrizio Quattrocchi

Iraq, 15 aprile 2004 - da Libero

Fabrizio QuattrocchiLo hanno prelevato nella stanza dei prigionieri, condotto fuori, in un campo, obbligato a scavarsi la fossa, bendato, poi, costretto in ginocchio, gli hanno sparato. Due colpi in testa. Sapeva perfettamente a cosa andava incontro, conosceva il macabro rituale retaggio nazista e non solo nazista. Ma Quattrocchi ha vinto la paura. Ha eseguito a puntino gli ordini. Non una lacrima, non uno sfogo isterico. Un istante prima di essere abbattuto, ha detto con voce calma e ferma: adesso vi faccio vedere come muore un italiano; e ha tentato di strapparsi la benda. Voleva vedere la morte in faccia e voleva mostrare ai suoi carnefici che era capace di morire in piedi benché lo avessero piegato con la violenza sulle ginocchia. Piegato negli arti, non nello spirito. Ci sono due motivi che possono aver spinto a negare la visione alla comunità islamica. Sono immagini controproducenti, per due motivi. Mostrano la ferocia gratuita della "Falange del Profeta Maometto". Soprattutto: si vede che il nemico è un uomo, e che uomo è. Avrebbero dovuto tradurre dall'italiano all'arabo la frase: "Ti faccio vedere come muore un italiano!". C'è un modo di morire che non è una sconfitta, ma una vittoria. C'è un orgoglio magnifico della nostra identità e delle nostre radici. Gli islamici avrebbero visto che cos'è un martire. Martire vuol dire testimone: e Quattrocchi, un tipo comune, un ragazzo italiano come tanti, ha documentato morendo che alla fine gli assassini temono lo sguardo puro e forte della loro vittima. Ha raccontato Imad El Atrache, giornalista di Al Jazeera: "Ho visto il film dell'esecuzione. Sono stato il primo a riconoscere Fabrizio Quattrocchi, e a percepire e comprendere le sue ultime parole. Ho avuto il triste privilegio di comunicare la notizia all'ambasciatore italiano e al mio vecchio e carissimo amico Renato Farina. Non abbiamo fatto altro che sentirci e sostenerci a vicenda, professionalmente e umanamente, in quelle ore. Qui voglio raccontare minuto per minuto com'è stata travolta la mia esistenza, ma soprattutto i secondi decisivi della vita di un uomo, di un poveretto. Quando tutto era compiuto e la notizia diffusa nel mondo, ho voluto far sapere una cosa bella, e ho desiderato che ne fosse avvertito il governo italiano. Ho telefonato, in Italia era da poco passata l'una di notte, a Renato e gli ho detto: "Io non so che lavoro facesse in Iraq Quattrocchi. Ma era un uomo di coraggio, di grande coraggio. È morto con dignità e forza. Sapeva di morire, non ha chiesto pietà, ne sono ammirato". Ho chiesto subito al montatore di farmi vedere le immagini: semplicemente agghiaccianti. Ecco quello che ho visto. L'ostaggio aveva le mani legate sul davanti. La stessa maglietta, gli stessi calzoni già visti. Ho capito che era Quattrocchi, anche se aveva un turbante bianco e nero che gli avvolgeva la testa e gli impediva di vedere. Accanto, una piccola fossa. Ed ecco: odo la sua voce. Una voce sorprendentemente pacata e direi anche spavalda, una forza interiore stupefacente. Ha detto testualmente, in italiano: "Ti faccio vedere come muore un italiano!". Un secondo di silenzio, la voce continua: "Posso...". Stava alzando le mani. Voleva togliersi il turbante, deduco, e guardare chi lo uccideva. Non fa in tempo: gli arriva un colpo di pistola alla testa. Sento un "aaahhh!", ma non come un grido, bensì una breve inspi- razione, un sospiro. Un altro colpo! Il secondo proiettile! Le immagini successive mostrano l'ostaggio ucciso a volto scoperto, nella fossa. Il filmato finisce così. Nonostante abbia vissuto la guerra in Libano ed in tanti altri posti, e nonostante sia tornato dall'Iraq da poco tempo, non sono riuscito a dormire fino all'alba. Mi tornava in mente Quattrocchi, la sua voce che diceva: "Ti faccio vedere come muore un italiano".